di Juan Raso

La parola “moda” ci fa pensare a cose positive: immaginiamo sfilate di modelle bellissime, vestiti con le migliori  “griffe” internazionali acquistati allo “shopping mall”, abbigliamento sportivo di marche prestigiose. Ma dietro a questa parola cosí attraente, si nasconde una delle industrie globali di maggior sfruttamento sul lavoro e in speciale di sfruttamento di donne lavoratrici. 

Oggi nell'industria globale della moda, l’80% dei lavoratori sono donne e di queste il 75% sono sottoposte a condizioni di lavoro miserabili. Como ci ricorda l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, nelle cosiddette catene mondiali di fornitura (global supply chain) del settore della confezione, le donne lavorano nelle attivitá con i salari piú bassi, spesso senza alcuna tutela sociales (anche in caso di maternitá) e il loro percorso professionale é ben limitato. 

Quando decidiamo comprare abbigliamenti “di marche” internazionali, riflettiamo su questa realtá? Siamo consumatori responsabili al momento dell’acquisto?

Riflettiamo sugli effetti che i nostri acquisti possono avere sull’ambiente e la societá?

Intendo che in una societá globale tutti noi – proprio come consumatori – possiamo assumere un atteggiamento positivo e proattivo con una scelta consapevole sui prodotti, che andremo ad acquistare, che potrebbero non rispettare livelli minimi di rispetto umano.

Oggi sono presenti nel mondo organizzazioni, che costruiscono solidarietá tra i consumatori al fine di migliorare le condizione dell’ambiente e il lavoro. In tal senso la ONG “Clean Clothes” (in italiano Abiti Puliti), organizza campagne con l'appoggio di consumatori e sindacati per migliorare le condizioni delle persone che lavorano nell’industria globale della produzione tessile. L’organizzazione é presente in 17 paesi europei (tra cui l’Italia) e collabora con 200 organizzazioni di lavoratori e lavoratrici nel mondo.

"Il modello economico globale – sostiene Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign - spinge i prezzi al continuo ribasso e mette in competizione i Paesi a basso salario. È un dato di fatto che i lavoratori che producono quasi tutti gli abiti che compriamo, vivono in povertà, mentre le grandi marche si arricchiscono grazie al loro lavoro. È tempo che i marchi adottino misure efficaci di contrasto al sistema di sfruttamento che hanno creato e da cui traggono profitto". 

A partire da questa premesse é entrato in vigore il 1° settembre scorso il nuovo “Accordo Internazionale per la Salute e la Sicurezza sul lavoro” elaborato da “Abiti Puliti”, e che é aperto alla firma di quelle aziende che si impegnano a rispettare standard internazionali  minimi di sicurezza nella loro attivitá produttiva. I grandi marchi della moda non hanno l’obbligo di firmare l’accordo, ma per chi non firma é “Abiti Puliti” che si incarica di diffondere l’informazione attraverso le sue reti sociali. 

Tanto per capirci, provate a cliccare sul sito di questa organizzazione e vedrete indicati i marchi internazionali che giá hanno firmato: tra questi segnalo H&M, Inditex (Zara), C&A, Tommy Hilfiger, Calvin Klein), Uniqlo e Esprit. I marchi che non hanno firmato sono ancora tanti e molto noti, ma “Abiti Puliti” li ha messo alla gogna nelle sue catene di messaggi pubblicitari diretti ai consumatori europei: Non comprate da chi non firma!, é il messaggio della ONG. 

Il fatto mi sembra importante perché dimostra che noi - nel ,momento del nostro acquisto – possiamo scegliere tra marchi che stabiliscono tutele minime in difesa dei loro lavoratori ed altri che invece continuano a produrre con un forte sfruttamento della miseria. Non é facile imparare ad essere consumatori responsabili, ma dobbiamo capire che cosí potremo diventare parte di un necessario processo di cambio per rendere reale un commercio piú giusto e con condizioni di lavoro piú decenti. In una societá del consumo, vi sono ancora spazi per azioni responsabili.