di Stefano Baldolini

Di villa in villa, di palazzo in palazzo, il centrodestra è finito a fare il punto post amministrative a Villa Grande. Appia Pignatelli, Roma dei Papi, di abusi e matrimoni di lusso, del grande cinema italiano. Dimora di Franco Zeffirelli, che ci visse - in comodato d'uso - fino ai recenti lavori di ristrutturazione. Proprietà di Silvio Berlusconi, che ci rientra sorridente lo scorso febbraio - con tanto di video sui social a immortalarne forma e gratitudine per uno striscione di benvenuto.

Di lì a poche ore voterà la fiducia al governo Draghi. Poi dalla sua nuova scrivania presidenziale, tricolore d'ordinanza, bandiera Ue di prammatica, il Cav voterà il sì al recovery Fund. Avvolto come un cristo bizantino dall'oro dei tendaggi, della carta da parati, dell'imbottitura della poltrona. Pura luce increata che ha sostituito le tinte grigie e celesti amate dal grande regista. 

Potere e limite delle maestranze berlusconiane, che hanno uniformato al suo sogno di grande architetto metrature pregiate e ben distribuite lungo la penisola. Da Villa San Martino, la mitica Arcore delle origini della scalata, luogo del cuore, famiglia e avventure, cene più o meno eleganti. Arcore della biblioteca di Dell'Utri, dell'albero di Natale e di Dudù. Alfa e un po' troppo omega con quel celebre mausoleo cascelliano ai cui travertini Indro Montanelli disse no.

Chi accettò l'invito per poi oltraggiarne il sito fu Umberto Bossi, che nell'estate pre-Ribaltone si presentò in un'altra tenuta, la Certosa della Costa Smeralda, in canotta e sigaro. E più che villa, fu villanìa leggendaria. Questione di etimo e di creanza. Ma anche di una discreta dose di preveggenza stilistica: potere del mirto se anni dopo da quelle parti spuntò l'altrettanto scostumata bandana.  

Comunque, meglio affidarsi a ospiti sinceri, come Vladimir Putin, che tra le erbe medicinali della splendida magione sarda, si ritroverà spesso e volentieri. Meglio passare ai palazzi, come palazzo Grazioli, via del Plebiscito 102, piazza Venezia lì dietro, quartier generale, casa e partito, vero e proprio Chigi 2, vertici di governo, potere assoluto tempestato di cronisti, scorte e specchi. Come di specchi in ascensori hi-tech si favoleggiava nel primo Palazzo romano del Cav, a via dell'Anima, dietro Piazza Navona, vicino a un altro luogo simbolo del passaggio tra Prima e Seconda Repubblica, il Raphael delle monetine a Craxi.

A proposito, anche la discesa in campo meritavano location e libreria adeguata. Ma a dispetto della vulgata, il discorso di "Questo è il Paese che amo" non fu scandito ad Arcore ma in quel di Macherio, residenza della famiglia Berlusconi-Lario, settecentesca villa storica che fu dei Visconti di Modrone, poi ceduta non senza patemi legali dopo la fine dell'amore con Veronica. E la gioiosa macchina da guerra del povero Occhetto fu spazzata via da un vero e proprio set improvvisato, tra calcinacci, spifferi e tendoni di nylon. Vero e proprio cantiere di una futura dependance del Cav.

Quanto sia cantierabile oggi l'alleanza con Matteo Salvini e Giorgia Meloni, è tutto da verificare. Volendo essere grossier, quella del vertice sembrerebbe una Villa Grande per un piccolo centrodestra. Almeno nei numeri delle recenti elezioni. Perché nei sondaggi, è noto, Lega, Fdi e Forza Italia sono ancora forti nel Paese. Una Villa Grande come vaticinio politico dunque. C'è solo da rimettersi in forma, magari tutti in identica tenuta bianca, come fece Silvio con i fedelissimi Letta, Confalonieri, Dell'Utri e Gallia­ni, nella tenuta Blue Horizon alle Bermude. Altre ville, altri tempi, altre traversate nel deserto.