di Cristofaro Sola

 

In principio fu Charles de Gaulle a parlare di Europa“terza forza” tra Stati Uniti e Unione sovietica. Di recente è stata Angela Merkel, indispettita dall’oltranzismo nazionalista di Donald Trump e dal suo “America first”, a sentenziare: “L’Europa deve cominciare a pensare di forgiare da sola il suo destino”. 

Oggi, con la crisi russo-ucraina che morde ai confini orientali dell’Unione europea, è giunto il momento, per gli Stati comunitari, di muoversi come un sol uomo e di parlare con una sola voce. Non sappiamo se essere più esaltati o più commossi nel sentire i politici nostraniasserire che mai prima d’ora l’Europa sia stata così compatta. Praticamente, una barra in titanio. Allora, tutto bene? Sembrerebbe di sì, se non fosse per quel tappeto che ingombra la scena. Vi domanderete: cosa diamine c’entra il tappeto? C’entra, eccome. Perché, nello svolgersi della vita degli esseri umani come delle nazioni, da qualche parte spunta fuori un maledetto tappeto sotto cui è annidato lo sporco che si vuole nascondere alla vista. Se sollevassimo un lembo del tappeto europeo, cosa troveremmo? Una politica economica ed estera dei Paesi europei mirata a farsi le scarpe a vicenda.

La Grecia, Paese Ue, è in perenne tensione con la vicina Turchia, potenza regionale extra-comunitaria. Per non subirne la supremazia, il governo di Atene, che ancora non si è ripreso dal tracollo finanziario degli anni scorsi, ha acquistato fregate e aerei caccia multiruolo Dassault “Rafale” dalla Francia.

La Spagna, per controbilanciare l’espansionismo francese nell’area del Mediterraneo orientale, ha stipulato un accordo di cooperazione militare con la Turchia. Madrid venderà ad Ankara una portaerei, la “Tracia”, dopo averle venduto la nave portaelicotteri da assalto anfibio “Anadolu”, e dopo aver detto addio all’embargo alla vendita di armi, deciso nel 2019 a carico della Turchia da alcuni Paesi Ue tra i quali la stessa Spagna, per l’atteggiamento aggressivo nei confronti di Grecia e Cipro.

Anche “l’ecumenica” Germania ha ripreso a vendere armamenti al tiranno Recep Tayyip Erdoğan. Sei sottomarini di fabbricazione tedesca sono destinati alla Marina turca. Che fanno il paio con i due sottomarini prodotti dalla ThyssenKrupp. Nel 2012 la Germania impose alla Grecia di acquistarli come tributo per aver acconsentito alla salvezza dell’economia ellenica dalla bancarotta. Costo dell’operazione: 1,3 miliardi di euro. Sottomarini e non solo. Nel pacchetto confezionato dalla cancelliera Merkel erano compresi 170 panzer Leopard, per un costo di 1,7 miliardi di euro, e 223 cannoni dismessi dalla Bundeswehr, la forza armata tedesca.

Anche l’Italia arma la Turchia. Ankara è il nostro primo cliente in fatto di armamenti: copre una porzione dell’export di settore di circa il 20 per cento. È la stessa Turchia che, in Libia, ha soppiantato l’Italia nel ruolo di lord protettore del Governo di Tripoli contro le mire dell’alleanza in Cirenaica. Quest’ultima a sua volta sostenuta dalla Francia la quale, dalla caduta di Gheddafi, non ha mai smesso di fare la guerra all’Italia sulla gestione del petrolio libico. Eppure, a vederli da lontano, Emmanuel Macron e Mario Draghi, sembrerebbero vecchi amici tanto mostrano di andare d’accordo. Ma non evidentemente sulla questione della messa in sicurezza delle forniture di idrocarburi. A Parigi, l’idea di uno stoccaggio comune del gas per fronteggiare la speculazione sulle materie prime energetiche, non interessa. E se per la Francia una politica comune sul gas non è conveniente, ancor meno lo è per i governi di Germania e Olanda che, nell’ultimo Consiglio d’Europa a Versailles tra gli stucchi e gli ori della reggia, si sono opposti fermamente alla proposta dello stoccaggio comune di gas. Penserete: la solita Olanda che ci ama tanto. Nient’affatto, è solo business. Il mercato in cui viene fissato il prezzo del gas è ad Amsterdam. Dalle oscillazioni delle quotazioni, che recentemente hanno superato il trecento per cento, l’Olanda ne ricava un aggio. Perché rinunciarvi? E per cosa? Per il bene comune. Ma gli olandesi sono così, da sempre si chiedono cosa sia mai questo “bene comune” di cui parlano i partner mediterranei. E non trovano la risposta. Ma se non ci provano i forti, è giusto che si attivino gli “sfigati”.

Draghi dialoga con i leader di Spagna, Portogallo e Grecia per mettere in piedi un “mercatino” vigilato, tutto sud-europeo, del gas. In bocca al lupo, visto che bisogna staccare l’ossigeno all’orso russo. E a Mosca, l’ossigeno che serve alle casse pubbliche in tempi di sanzioni puzza di gas. Bene, benissimo, prepariamoci a punire l’arrogante Russia con la più tranchant delle misure: l’Europa non gli compra più il gas. Quando si dice: un sol uomo. Attenti, però. Da qualche parte deve esserci una perdita alle condutture: chiamiate un tubista. Già, perché il rubinetto che aziona il Nord Stream 1 deve essersi inceppato: continua a pompare gas dalla Russia alla Germania al 100 per cento della sua operatività. Che in termini di volumi erogati annui significa 60 miliardi di metri cubi di gas (quasi l’intero ammontare del consumo italiano) che i tedeschi continuano a ricevere nel mentre spiegano al mondo, che no, il gas russo non si deve comprare. Penserete: ci sono le istituzioni comunitarie che funzionano. Non proprio.

Non hanno fatto in tempo i leader europei a riunirsi per ribadire che l’Unione europea non avrebbe compiuto azioni dirette nel conflitto in corso e non avrebbe instituito una no-fly zone sui cieli ucraini, che i premier di Slovenia, Polonia e Repubblica Ceca, rispettivamente Janez Janša, Mateusz Morawiecki e Petr Fiala, si sono catapultati a Kiev, sotto i bombardamenti, per dire al leader ucraino, Volodymir Zelensky, che l’Europa sarebbe pronta a inviare “una missione di pace, della Nato e possibilmente ancora più larga, che operi in territorio ucraino. E che sia in condizioni di difendersi”. Parole scriteriate, pronunciate a nome dell’intera Unione senza averle concordate con i partner comunitari. È intervenuto il presidente del Consiglio d’Europa, Charles Michel, a smentirli. Direte: c’è la Commissione europea a rappresentare la solidità granitica dell’azione politica comunitaria nella crisi in atto. Spiace deludervi. Della presidente Ursula von der Leyen non si può dire granché, visto che il suo pensiero non risulta pervenuto. Riguardo, invece, all’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, lo spagnolo Josep Borrell, che in un frangente del genere dovrebbe sentirsi come il topo nel formaggio, bisognerebbe rivolgersi a “Chi l’ha visto?” per sapere che fine abbia fatto.

C’è poi la questione profughi in fuga dalla guerra che tiene banco. L’Ue si è detta pronta a fare la sua parte. Tuttavia, non sembra che gli Stati membri s’impegnino nell’accoglienza allo stesso modo. Alla data del 14 marzo gli ucraini entrati nel perimetro dell’Unione sono stati 2,6 milioni. Di questi, l’Italia ne ha accolto 37.447. Paesi, pur impegnati in prima linea sulla crisi russo-ucraina, come la Francia, hanno fatto molto poco. Sul fronte delle forniture militari ai resistenti ucraini, l’Ungheria di Viktor Orbàn si è chiamata fuori decidendo di non consentire il transito di armamenti sul proprio territorio.

Altro che voce sola, questa Europa è affetta da afasia congenita. E dire che non siamo ancora giunti al momento in cui si discuterà se andare oltre la regola del patto di stabilità per i bilanci degli Stati membri Ue. Che ne pensano i “virtuosi”? Fidatevi, quando se ne parlerà ne sentiremo delle belle. Ma se è questa l’Europa della quale ci dovremmo compiacere, sapete che c’è? Andate a ramengo.