di E. Porceddu

La sicurezza alimentare dell’Italia è un tema apparentemente affiorato all’attenzione dei media a seguito della crisi in Ucraina. Si sente parlare di scaffali vuoti, di merci che non arrivano, della necessità di curare scorte personali. Ritengo sia necessario ricordare il convincimento dell’Accademia Nazionale dei Lincei che, già prima dell’invasione dell’Ucraina da parte dell’armata russa, una crisi alimentare nazionale era stata anticipata come una possibile futura evenienza negativa.
Già al tempo della discussione e dell’approvazione del DDL_908, “Agricoltura biologica e biodinamica”, la Commissione Agricoltura dell’Accademia aveva prodotto un breve documento, portato, in data 9 giugno 2021, all’attenzione del presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio dei ministri, ai presidenti di Camera e Senato, ai ministri del Mipaf, Miur; Mite, Mef, ai presidenti delle competenti Commissioni parlamentari di Camera e Senato. La discussione in quelle settimane riguardava principalmente l’agricoltura biodinamica, ma la Commissione colse l’occasione per approfondire alcuni importanti aspetti sul tema di Agricoltura e Sicurezza alimentare. Riporto di seguito alcuni stralci ripresi liberamente dal documento citato.

Le stime delle necessità del pianeta indicano che, nel 2050, l’agricoltura mondiale dovrà produrre una quantità di alimenti superiore del 70% a quella attualmente disponibile. Da qui l’interrogazione di come conciliare la produzione di derrate alimentari con il numero di abitanti da nutrire, la sostenibilità dei sistemi agricoli, la produzione di derrate maggiormente preferite da una società più evoluta, i cambiamenti climatici, la valorizzazione della scarsa risorsa acqua, la produzione di energia verde, l’organizzazione e i bisogni della società.

Non esistono risposte certe, ma non è difficile ipotizzare che la disponibilità di alimenti potrebbe andare incontro a gravi stati di crisi globale e nazionale. A preoccupare è la misura con cui una crisi di questo tipo possa incidere sulla sovranità alimentare di un paese, come l’Italia, che importa oltre il 38% delle calorie e proteine consumate dai suoi abitanti: la carenza di derrate alimentari avrebbe effetti dirompenti, specialmente se annate a bassa produzione dei campi dovessero rendere critici gli approvvigionamenti per importazione.

Sarebbe, per esempio, interessante conoscere se il Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica e il Ministero per le politiche agricole, alimentari e forestali abbiano documenti e/o programmi sull’esistenza e gestione delle scorte alimentari: un tema particolarmente caldo ai tempi della guerra fredda, quando l’eventualità di un inverno nucleare, seguito da raccolti bassi o nulli, era considerata con attenzione. Si potrebbe anche chiedere, per esempio, se esistano in Italia scorte alimentari e quale sia il loro ammontare, chi le cura e le controlla, chi, come e da dove si importi, quali azioni siano previste se, malauguratamente, si entrasse in uno stato di crisi.

La modifica delle abitudini alimentari è una necessità, nel senso che una parte significativa delle proteine animali sia sostituita da proteine vegetali. È una misura lenta da mettere in atto: i sistemi di produzione e di trasformazione dei prodotti agricoli sono resistenti ai cambiamenti o lo fanno lentamente. L’agricoltura deve, tuttavia, avviarsi a forme ecologicamente più sostenibili, rimanendo contestualmente molto produttiva, in modo da evitare, tra l’altro, di mettere in coltura nuove terre (nel mondo, ogni anno vengono dissodati dieci milioni di ettari di terre vergini). La ricerca può contribuire mettendo a punto varietà di derrate più adatte all’alimentazione per contenuto proteico e aminoacidi essenziali, curando la fertilità del terreno, mettendo a punto metodi di salvaguardia delle colture più idonei alla salvaguardia della biodiversità.

La superficie arativa italiana è circa il 35% della superficie nazionale. È una percentuale molto diversa da quella dei paesi centro-europei la cui superficie consente di produrre derrate agricole di base anche per l’esportazione. In questa situazione, è difficile per l’Italia accettare proposte di sostenibilità agricola basate su sistemi colturali poco produttivi: i terrazzamenti e le altre sistemazioni idraulici-agrarie di una volta sono stati quasi tutti abbandonati, la superficie forestale è, negli ultimi due decenni, aumentata di due milioni di ettari, il piano di intervento Pnrr prevede la sottrazione, a fini di produzione energetica, di almeno 200.000 ettari di terreno agrario. Aumentare l’importazione di derrate agricole non è però una soluzione. Significherebbe, tra l’altro, esportare i problemi ambientali: la superficie dei pascoli argentini si è dimezzata per fare spazio alle derrate da esportazione; per la stessa ragione vengono abbattute parti della foresta amazzonica. Sembra allora logico che l’Italia debba dedicare maggiore attenzione alle colture per derrate utili ad uno stile alimentare da modificare; a pratiche agronomiche che permettano la conservazione, ai bordi dei coltivi, di siepi, alberature, cespugli, fossati di sgrondo e altri corridoi di continuità biologica; allo sviluppo di bioagrofarmaci e di piante perenni immuni da malattie; all’adozione di principi di agro-ecologia e agro-biodiversità.

Ho chiesto alla Commissione Agricoltura dell’Accademia se, alla luce delle modifiche commerciali indotte dalla guerra, la posizione dell’Accademia debba modificarsi. La risposta è stata negativa, nel senso di confermare le conclusioni del documento citato in apertura. La Commissione mi ha, inoltre, proposto un grafico relativo all’autosufficienza, negli ultimi 60 anni di frumenti, mais e soia. I dati sono sorprendenti non tanto per i livelli di importazione (negli anni e progressivamente sempre più lontani da una possibile autosufficienza), quanto perché fanno sorgere la domanda se qualcuno, compresi scienziati e loro corporazioni, si sia posto la domanda se l’Italia non stia in una sorta di pericolosa dipendenza da esportatori che hanno l’opzione di interrompere le forniture.

Nel 1960 la produzione nazionale di frumenti era sufficiente per coprire i bisogni. L’Italia produce ora solo il 62% del necessario. Nel 2000 il raccolto di mais aveva raggiunto l’autosufficienza; dopo 20 anni arriva ora al 43% dell’utilizzato. La soia, indispensabile per gli allevamenti di animali, in questi ultimi anni viene prodotta nel paese per circa il 40%.