PORTOFRANCO

di Franco Manzitti

 

Si vota tra trentuno giorni, un mese, per capire se Genova resta in mano a quel sindaco che “cria”, che urla in dialetto genovese, o se cambia ancora, quattro anni dopo la conquista della “roccaforte rossa” da parte della Destra.

La città di fine primavera, dopo un inverno, una primavera e pure un autunno secchi come mai, fino a temere una apocalittica siccità, è un po’ sporca e soprattutto nel centro sembra abbandonata.

La “Rinascente” chiusa da tre anni nel cuore di Piccapietra, il quartiere di Balilla, il ragazzo che sfidò a sassate l’invasore austriaco nel Settecento,  che negli anni Sessanta pulsava di cinema, negozi, grandi costruzioni, centri direzionali come la Mira Lanza, la Italimpianti, colossi industriali  privati e parastatali, ha il primo piano abbandonato, con le vetrate sfondate e dentro cumuli di macerie in bella vista.

Le gallerie del fu shopping di questa parte genovese rilanciata e ricostruita nel Dopoguerra, di notte le chiudono con le catene per impedire i bivacchi dei senza tetto. Piazza Corvetto, ombelico, ex gioiello del cuore genovese, alle otto di sera è chiuso come sotto  un coprifuoco.

Vittorio Emanuele III, statua equestre nel centro della piazza e Giuseppe Mazzini, statua equestre poco più sopra, che scende la scala,  profetico e ammonitore, si stagliano nel vuoto dei suoni e del pubblico.

Perfino il “vu cumprà”, sempre lo stesso, che da dieci anni smercia fazzoletti di carta e ombrelli nel Sottopasso, ha chiuso la sua bottega-sgabello e la coppia marocchina, padre e figlio, che dagli stessi anni chiede l’elemosina agli automobilisti fermi davanti al semaforo rosso,  sono già via a contare gli spiccioli di una giornata lunga.

Il centro di Zena è come risucchiato nel vuoto, anche se questa è la dolce primavera. Trenta giorni al voto e “la Genova del fare”, che Marco Bucci grida ad ogni angolo è più facile trovarla altrove, se scegli la narrazione ottimistico-efficientista-operativa di questo sessantenne, venuto dal Michigan, boy scout, marito di una super pasticceria, che ti vende prelibatezze nel negozio del quartiere nobile di Carignano.

Se vuoi rimpiangere gli Anni Sessanta, allora meglio fare un salto nella bellissima mostra su quel periodo da boom economico e sociale, ottimista e creativo, installata a Palazzo Reale ex residenza Savoia, dove in quel gioiello che è il Teatro Falcone, ci sono grandi foto, pannelli, video, design, opere d’arte che ricostruiscono gli anni belli.

Mostra firmata dallo storico dell’arte Luca Leoncini, ma a cui hanno partecipato anche grandi architetti, come Benedetto Besio. Un tuffo in un passato dal quale riemergendo ti chiedi se è tutto veramente finito e se l’ottimismo yankee del sindaco e della sua squadra sono solo un maquillage su una rovina come quella “Rinascente” chiusa.

Il sindaco, inaugurando gli Anni Sessanta ha lodato quello spirito di innovazione, di creatività, di spinta che aveva cambiato la allora quinta città italiana, che nel 1968, anno fatidico, toccò gli 861 mila abitanti, sostenendo che “oggi siamo allo stesso punto… di spinta.

Solo che gli abitanti adesso sono 555 mila, negli ultimi cinque anni se ne sono persi 23 mila.

Allora si costruiva ovunque, ora il paradosso è che si continua a costruire, anche se ci sono 27 mila appartamenti sfitti e una smania di costruzione che dilaga su e giù dalle colline al ventre dei “caruggi”. E così uscendo fuori da quel quartiere ombelicale di Piccapietra semiabbandonata, incominci a camminare su questo crinale difficile da percorrere.

Da una parte c’è l’orizzonte di una nuova Genova, dove si abita diversamente, non più proiettata verso una Silver Economy da città con il più alto tasso di vecchiaia dell’Europa, ma piuttosto in direzione di un nuovo mondo residenziale da smart working, servizi efficienti, spostamenti rapidi, collegamenti veloci all’interno e all’esterno, tra treni veloci e autostrade rifatte e collegate con gronde, tunnel sub portuali e arditi ponti.

Sarebbe questa un città del futuro dove il conto residenziale, che anche l’Istat certifica quasi drammaticamente nel suo calo verticale, non vale più perché si sommano non i residenti, ma chi ci lavora e chi la usa abita, magari, a decine di chilometri nella grande cintura rivierasca o dell’entroterra.

E allora altro che 550 mila, saremmo 780 mila, come si pavoneggia il sindaco.

Dall’altra parte c’è l’orizzonte stretto della città triste, abbandonata, che dipinge il centro sinistra e il suo non certo allegro portabandiera candidato sindaco, Ariel Dello Strologo, subito impegnato a sedare le risse della sua maggioranza appiccicaticcia.

Dello Strologo, cinquantenne, presidente della Comunità ebraica, avvocato dello  studio fu De Andrè, mitico fratello del celebre Faber e figlio di quel D’Andrè che costruì proprio la Genova anni Sessanta, sposato con una dirigente del Palazzo Ducale, vera incarnazione di un ceto moderato progressista, alla fine accettato dalla sinistra radicale e dai residui grillini, nella città dove Grillo vive ancora, silenzioso nel suo eremo di sant’Ilario , la ex Hollywood zeneise.

Città diseguale, di grandi distanze sociali, da quella sant’Ilario dei ricchi alla suburra dei “caruggi”, che nessuno riesce a riscattare, di destra o sinistra che sia, di periferie che non si possono chiamare così, che gli uomini di Bucci hanno incominciato a aggredire distruggendo la famosa Diga di Begato, il Corviale genovese sulle alture. Città di quartieri un po’ abbandonati, di una immigrazione sparsa, molto sudamericana ecuadoregna, anch’essa calante nei numeri.

Una città incerta nella sua definizione e nei suoi confini, secondo questa visione “de sinistra”, senza prospettive.

Il Porto Petroli, vera bomba collocata tra le case di Multedo a Ponente, che Bucci vuole spostare in un altro quartiere di sofferenze storiche, in mezzo alle banchine di Sampierdarena, correndo il rischio più alto della sua cavalcante campagna elettorale per l’insurrezione dei cittadini di quella che veniva chiamata la Manchester di Genova, la città alter ego, patria della Sampdoria, la  seconda squadra di calcio della città , porto, fabbriche, pretese di gran decoro borghese nei viali centrali come via Cantore.

Antica questione, che nessun sindaco è riuscito a risolvere e che ora balla tra i due candidati, mentre le popolazioni di Multedo e Sampierdarena si contrappongono, tra liberazione degli uni e ribellione degli altri.

Il porto che aspetta il “miracolo” di una una nuova diga foranea, 120 anni dopo quella finanziata dal Rockefeller del diciannovesimo secolo, il marchese Raffaele  De Ferrari, principe di Lucedio, gran benefattore. Ora i soldi ci sarebbero e il progetto per allungare Genova in mare di 500 metri anche, ma le certezze sui tempi e sui fondi, 2,3 miliardi, mica tanto.

Un tempo sul porto decidevano, salvo intromissioni politiche alla Craxi, solo il presidente dell’Autorità portuale, che si chiamava allora Cap, Consorzio Autonomo del Porto, nominato dalla politica clientelare e parcellizzata e il capo dei camalli, dei leggendari portuali, soprattutto il mitico Paride Batini, leader maximo della resistenza monopolistica del lavoro in banchina, ereditata dai tempi medioevali, un personaggio che ha segnato il Novecento genovese, con il porto bloccato intorno alla riserva del lavoro, esclusiva della mitica Culmv, la Compagnia Unica Merci Varie, fatta di uomini duri, magliette a strisce, ganci per arraffare i sacchi di merce, ma anche i nemici politici, come i poliziotti del ministro Scelba, e guai a chi li toccava quei portuali.

Oggi sul porto parlano tutti, a cominciare da Giovanni Toti, il bulimico presenzialista  presidente della Regione, al secondo mandato, oramai in vista del terzo, se riuscirà a agguantarlo, dopo i suoi patatrac nella politica nazionale.

Proprio lui, rientrato nei ranghi della politica locale, perché i movimenti nazionali, “Cambiamo” e Coraggio Italia”,  da lui lanciati per conquistare il Centro ,  prima con una tribù di transfughi forzisti, parlamentari e non, poi con il sindaco di Venezia e poi con altri desperados del centro, si sono spenti come candele.

Tornato sul podio genovese Toti ha addirittura presentato una lista di appoggio al sindaco, mossa inusuale e non del tutto gradita nel mondo della Destra, che vede ormai il governatore come una specie di mina vagante.

Resta il fatto che il porto, con le sue grandi opere promesse, i miliardi in arrivo dal Pnr e da altri fondi, i suoi traslochi. I progetti spesso molto elettoralistici di ampliamento, fino a modificare l’intero scenario genovese, resta nel cuore, ma avulso dalla campagna elettorale  e solo il centro di fantasmagorici progetti a uso elettoralistico.

Il centro destra lo governa direttamente, attraverso il presidente dell’Autorità Portuale, Paolo Emilio Signorini, da sei anni al timone, uomo scelto da Toti e da Bucci e, quindi, ne porta l’intero carico di responsabilità.

Il centro sinistra che dovrebbe contrapporre una sua visione, si limita a settoriali polemiche sui singoli temi, senza mai sfondare come se quello, che è “il sale” di Genova, non meritasse il programma più qualificato dell’intera campagna.

Insomma, se continui a passeggiare per Genova e alla fine arrivi sulle banchine, siano quelle turistiche del porto antico, disegnato da Renzo Piano, siano quelle operative dei moli, dove attraccano con difficoltà le mega navi da carico o i giganti delle crociere, senti che “quella” è ancora Genova e il suo destino nel Terzo Millennio si gioca ancora lì, come ai tempi delle Crociate, quando si partiva per conquistare Gerusalemme, come nel secolo della potenza marinara, quando la bandiera genovese, bianca con croce rossa, veniva chiesta in prestito dalle flotte inglesi, tanto era il timore che incuteva. Ne terranno conto mentre si sfidano per conquistare la città e il suo cuore?