Foto di repertorio (Depositphotos)

di Antonella Boralevi

Ieri erano 110 giorni dall’inizio della invasione russa dell’Ucraina. Cominciò il 24 febbraio, con i carri armati di Putin che violavano i confini nazionali. I servizi segreti, la Cia più di tutti, l’avevano annunciato, ma fino alla sera prima furono sbeffeggiati. Fummo costretti, noi occidentali del privilegio di 80 anni di pace (escluse le guerre della ex Jugoslavia, che tuttavia erano state vissute come locali), ad affrontare lo choc. Possibile? Ci dicevamo. Cominciò la Fase 1.

Sdegno, paura, sanzioni, fuga dei brand occidentali dalla Russia, tentativi di negoziare. L’Europa si compattò a sorpresa, dentro una frase sola: non entreremo in guerra, ma aiuteremo con armi e aiuti l'Ucraina invasa. Un paio di mesi, tra dirette non stop, aperture dei tg, libri, talk. Bollettini militari alternati alle tragedie delle vittime, dei profughi, dei bambini uccisi. Un grande slancio di empatia, di commozione, di indignazione. Raccolte fondi, manifestazioni. Passano due mesi ed ecco la Fase 2.

Le prove dei crimini di guerra dei russi, la discussione sulle prove dei crimini di guerra dei russi, le interviste ai portavoce e ventriloqui di Putin in nome del pluralismo della informazione. La discussione sui nomi e le facce dei putiniani d’Italia. Le notizie  sulla guerra scendono nella classifica della informazione. Finiscono le dirette, vanno in apertura sempre più spesso le vicende nazionali: minacciata crisi di governo, difficoltà economiche, cronaca nera, Eurovision. Il rumore delle bombe si fa sempre più distante. Ed eccoci al giorno 100: Fase 3.

Biden e Zelensky si rinfacciano i loro errori. Draghi e Macron annunciano un viaggio a Kiev prima del G7. Ma ormai il martirio della Ucraina sta diventando un utensile per la bassa cucina della politica, vedi l’annuncio di Salvini del suo viaggio a Mosca poi prontamente cancellato. La guerra si fa sempre più silenziosa. Non nel senso che non si spari: i russi bombardano le città del Dombass e le radono al suolo, l’esercito ucraino ha neanche un decimo dei loro proiettili, perde 200 soldati al giorno. I morti  civili vengono bruciati dai russi con inceneritori mobili, i cadaveri lasciati sulle strade inquinano le falde acquifere e ci sono i primi casi di colera, i prigionieri vengono portati in Russia e non c’è Croce Rossa a verificare che non siano torturati, i civili che non sono riusciti a fuggire sono deportati in Siberia, i prigionieri stranieri sono condannati a morte. Si scoprono fosse comuni in ogni luogo, civili con le mani legate torturati e ucci con un colpo alla tempia. Stupri anche di bambini. Ma, fateci caso, queste notizie, che per i primi mesi ci hanno sconvolto, ora sono diventate una eco lontana. Ci interessa altro. Il crollo della Borsa. La legge sui balneari. Le sfilate di Parigi. Il design di Milano. L’estate in arrivo. Le vacanze da prenotare. Le feste affollate che celebrano la fine del Covid. L’economia deve girare, sta girando, l’Italia sta facendo molto meglio del resto d’Europa.
Tra la morte e la vita, abbiamo scelto, stiamo scegliendo la vita.
La morte è degli ucraini, la vita è nostra.
Brutale, espresso in questi termini? Sì, e me ne scuso. Ma certe volte le parole, lo dico da scrittrice, devono essere pietre.
O no?