Franco Esposito

Due foto, soltanto due, ma più che sufficienti. Bastano e avanzano. Immagini, istantanee di un'Italia che mette i brividi. Quando il Paese diventa pasticcione, smemorato, superficiale, ritardatario. Il brutto del Belpaese. La prima foto in due scatti. Il primo a Mesagne, centro pugliese dalle parti di Brindisi, e a Lippstadt, settanta chilometri da Dortumund. Il secondo in Lombardia, in provincia di Brescia. 

Basta far prillare la monentina e il cattivo gioco è fatto. La storia di Marcella Primiceri, cinquantotto anni, presenta contorni e contenuti che la fanno sembrare incredibile. Laddove incredibile lo è davvero. Trentasette anni fa presenta domanda per essere assunta come collaboratirce scolastica. Proprio così, la nuova denominazione della vecchia bidella. Nessuna risposta dalle Istituzioni, il silenzio greve dei muti. Totale davvero. 

Marcella rimuove dalla sua memoria il fatto di aver inviato la richiesta di assunzione corredata dalla documentazione di  legge. Nel 2013 si trasferisce in Germania, a Dortmund. nella Ruhr, in cerca di una vita migliore; non più di stenti come quella vissuta a Mesagne. Lavora in fabbrica, a scuola, in alcune lavanderie e ristoranti. L'obiettivo primario è crescere al meglio i propri figli. 

Una telefonata le cambia la vita. La chiamata è del Ministero dell'Istruzione. "Dovrebbe presentarsi al Provveditorato, abbiamo una proposta di lavoro per lei. Una proposta di lavoro, ma al Ministero sono diventati matti o che cosa? Finisce così, in una maniera molto italiana. Marcella Primicerio, da settembre, lavora all'istituo alberghiero Sandro Pertini di Mesagne. Trentasette anni sono passati dal giorno in cui presentò la domanda di assunzione come bidella. 

Incredibile davvero. Succede solo in Italia, e dove se non in questo nostro Paese pasticcione? Il posto fisso in Italia, alll'istituo alberghiero, a Marcella non sembra vero. A lei pare di vivere una favola o un sogno, priginiera com'è di un'incredulità totale. "È una grande emozione, non pensavo che tutto questo potesse realizzarsi. All'inizio ho pensato che quella telefonata fosse uno scherzo di cattivo gusto". 

Madre di due figli, trentatrè e quaranta anni, il maggiore ha scelto di continuare a vivere in Germania. Bracciante agricola a Mesagne, una vita di sacrifici, per lei, fino alla decisione di lasciare l'Italia. Cercata all'estero, in realtà la fortuna è arrivata in questo Paese squinternato, a capo di un lungo avventuroso viaggio durato trentasette anni. 

Gratta gratta, ci si rende conto che Marcella ha custodito sempre la speranza di tornare in Italia. A Mesagne, dove vivono la mamma, due sorelle e suo figlio più giovane. "La Germania offre opportunità enormi, il lavoro non manca, ma la qualità della vita non è la stessa. In Germania i negozi chiudono alle diciotto e tutto si spegne". 

Il ritorno in Italia definito un sogno da Marcella, beneficiaria del posto dopo trentasette anni, quando ormai aveva perso ogni speranza. "Sono entusiasta, ora. Basta una passeggiata all'aria aperta a riempirmi il cuore di gioia". Fa niente se per godere ha dovuto aspettare 37 anni. 

L'altra foto è il racconto di un'odissea. L'immagine di una vicenda parimenti incredibile. Rimasto in carcere, 1.226 giorni vissuti in una cella, riconosciuto innocente dalla quinta sezione penale della Corte d'appello di Milano, Stefano Binda verrà risarcito dallo Stato. Accolta l'istanza di "riparazione per ingiusta detenzione", a Binda verrà riconosciuta la somma di 302.277, 38 euro. 

Su Binda è a lungo gravata l'accusa di essere il feroce assassino di Lidia Macchi. La studentessa di Cittiglio, Varese, trucidata con ventinove coltellate, la  sera del 5 gennaio 1987. L'arresto di Binda avvenne all'alba, tre anni e mezzo fa, nella sua abitazione di Brebbia, il 24 luglio 2019. Quando i giudici della corte d'appello di Milano avevano annullato la condanna all'ergastolo inflitta a Binda dall'Assise di Varese. 

Lo scorso 24 maggio, nel corso di una delle udienze, il legale di Binda, l'avvocato Patrizia Esposito, aveva chiesto un indennizzo di 303.228, 82 euro. Il lieve scarto tra richiesta e riconoscimento trova spiegazione nel fatto che Binda partiva da 235,87 euro per ogni giorno passato da detenuto; il conteggio della Corte d'appello è partito da 235,80 euro. Non accolta la richiesta di indennizzo di 50mila euro per "danni morali e d'immagine alla famiglia". Al Ministero l'onere delle spese legali, nella misura di 1.500 euro. 

L'ordinanza della Corte d'appello non ha condiviso le motivazioni espresse in udienza dal procuratore generale e dall'Avvocatura di Stato. "La Corte di Varese aveva riconosciuto l'accaduto con motivazioni approfondite, corrette, pienamente aderenti alla risultanze probatorie". Secondo il Giudice estensore Micaele Curami, non possono  essere "prese in considerazione come elemento di valutazione per deliberare circa la sussistenza di comportamenti dolosi o gravemente colposi in capo al Binda le considerazioni svolte nella sentenza di condanna della Corte d'Assise di Varese, in quanto travolte in toto dal giudice d'Appello".  

Ma come è potuto maturare il grande abbaglio da parte dei giudici? Binda non vuole pensarci, non cerca i colpevoli di averlo tenuto in carcere da innocente. "La mia innocenza, è stata acclarata in maniera assoluta e definitiva, per non aver commesso il fatto". Ma oggi il punto – dice pacato e contento – è che per tre anni, sei mesi e otto giorni mi sono visto in televisione e dai giornali sbattuto in prima pagina. Io, a trent'anni dai fatti, sono l'unico che ha dovuto subire la carcerazione, oggi riconosciuta come ingiusta. Molte persone accusate di omicidio hanno partecipato a piede libero al processo in cui sono giudicati colpevoli". 

Binda si augura che in questo Paese dalla giustizia evidentemente non sempre certa il suo caso sia stato un unicum. "Rimane l'amarezza di tutto quello che ho passato da innocente". 

Poco non è. L'ingiustizia non ha mai un prezzo. Anche quando viene riconosciuta e pagata con oltre 300mila euro. Quando l'errore giudiziario è madornale non ci sono cifre.