di PIERSANDRO VARZAN

… Il fascino di don Lorenzo Milani – morto a Firenze, il 26 giugno 1967 – e l’originalità del suo messaggio restano più vivi che mai. Perché gli scritti e le dure battaglie che affrontò scuotono tuttora le coscienze intorpidite, mettendole di fronte alle ingiustizie e alle connivenze o miopie. In breve, la sua ribellione obbediente – peraltro tuttora fonte di opposte valutazioni, come del resto si fa con altri «profeti» di quel tempo – è lì a ricordarci che soltanto dall’interno, anzitutto di noi stessi, è possibile cambiare i meccanismi perversi anche delle istituzioni. Come sacerdote profetico e lungimirante, fu osteggiato per il suo voler rimanere al di sopra delle divisioni politiche e ideologiche che laceravano l’Italia nel secondo dopoguerra, mentre fu altrettanto incompreso come uomo folgorato dall’utopia evangelica, che volle realizzare nella Chiesa schierandosi dalla parte degli ultimi.

Concretamente, don Milani tentò gli esperimenti di avanguardia del regnum Deiprima tra gli operai e i contadini di San Donato, proprio quando, colmata l’ignoranza che li estraniava dal resto della società civile, prendevano coscienza del loro valore di uomini; e poi nella sperduta canonica di Barbiana, in mezzo a un gruppetto di bambini che, divenuti famiglia accogliente in una scuola non discriminata, imparavano un sapere globale, tipico dell’umanesimo integrale cristiano, e preparavano così un futuro migliore: per sé e per la polis. Scriveva infatti: «La scuola siede tra passato e futuro e deve averli presenti entrambi. […] E allora il maestro deve essere per quanto può “profeta”, scrutare i “segni dei tempi”, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi oggi vediamo solo in confuso».

Mistero di una conversione

L. Milani nasce a Firenze il 27 maggio 1923, da una ricca e colta famiglia borghese. Il padre Albano, laureato in chimica, e la mamma, Alice Weiss – di origine ebraica, da giovane era stata a lezione d’inglese da James Joyce – entrambi agnostici, si erano sposati nel 1919 soltanto col rito civile, e non battezzarono i figli – Lorenzo, Elena e Adriano – fino al 1933, quando, con l’inizio della persecuzione razziale in Germania, decisero di celebrare in chiesa sia il battesimo di tutta la famiglia sia le nozze. Nel 1930, a causa della crisi economica, si trasferirono a Milano, dove Lorenzo poi si iscrisse al Berchet, mostrando subito un’indipendenza e audacia fuori dal comune. «Era diverso da tutti noi: spregiudicato, bastiancontrario. Si comportava come scriveva: senza curarsi della punteggiatura», racconta uno dei compagni, e a 18 anni, contro il parere dei genitori, non si iscrisse all’Università, ma frequentò l’Accademia delle Belle Arti di Brera: una scelta – influenzata dal pittore fiorentino Hans Joachim Staude, conosciuto nell’estate del 1941 – rivelatasi decisiva per la sua futura vocazione, esattamente come i mesi passati un anno dopo nella tenuta di famiglia a Gigliola, fuori Firenze. Proprio qui infatti, nella cappellina sconsacrata, trovò un vecchio messale che lesse d’un fiato, scrivendo poi all’amico Oreste del Buono: «Ho letto la Messa. Ma sai che è più interessante di Sei personaggi in cerca d’autore?».

Quell’interesse si rafforzò talmente che, da semplice attrazione verso la dimensione esteriore della religione, si trasformò in una così profonda ricerca dei significati del sacro e delle sue ragioni profonde da scatenargli in cuore – nei toni massimalisti a lui propri – un forte travaglio interiore, che trovò parziale requie alla fine degli studi da pittore e il rientro a Firenze, nella primavera del 1943. Dopo alcuni mesi incontrò don Raffaele Bensi, un prete molto amato dai giovani fiorentini, il quale, di fronte ai suoi foglietti zeppi di problemi, pensò d’indirizzarlo a don Mario Lupori. Lorenzo si recò a trovarlo, con una fitta serie di interrogativi, ma le risposte ottenute non lo convinsero, tanto che se ne andò affermando: «Si vede che lei non è preparato!». E tornò da don Bensi, il quale – stupito di ritrovarselo davanti – gli disse che non poteva ascoltarlo in quel momento, perché doveva correre al capezzale di un prete moribondo. Alle insistenze di Lorenzo, gli propose di seguirlo. Camminarono insieme per un’ora e mezza e, racconta don Bensi: «Arrivati dal prete lo trovammo morto. Lorenzo lo guardò e dopo un lungo silenzio disse: “Io devo prendere il suo posto”». Era il 3 giugno 1943. Dopo una settimana ricevette la cresima, e per tutta l’estate approfondì i tesori della fede cristiana; poi a settembre, durante un pranzo, comunicò ai genitori di essere stato accettato in seminario. L’annuncio ovviamente lasciò tutti sorpresi e provocò, insieme al dispiacere, varie obiezioni; ma nessuno ostacolò la sua vocazione.

Entrò nel seminario di Cestello in Oltrarno, nel quartiere popolare di San Frediano, proprio mentre l’Italia era in piena guerra, sperimentando subito una povertà alla quale non era abituato: fame, freddo e privazioni. Eppure quella vita materiale così dura non lo scoraggiò, perché aveva trovato quanto istintivamente cercava: una ragione assoluta per vivere. Lorenzo fu sempre fedele a una forma di vita molto austera – la cella era spoglia, con un tavolo e il letto senza materasso – e a una scrupolosa osservanza delle regole. Ma ciò non gli impedì di esprimere quella sua marcata autonomia nei confronti del seminario e delle strutture ecclesiastiche in genere, che lo avrebbe contraddistinto per tutta la vita. Fin da allora imparò a distinguere la fede dai comportamenti dei suoi custodi terreni, non di rado scontrandosi con gli insegnanti, ai quali diceva tutto quel che pensava; mostrava insofferenza verso gli esercizi spirituali, «non lasciava nessuno indifferente: o lo si amava o lo si odiava!».

Alla madre, che in una lettera gli parlava della perdita di libertà, rispondeva: «Quando uno liberamente regala la sua libertà è più libero di uno che è costretto a tenersela. Chi regala la sua libertà si libera dal peso di tenersela. […] Io per esempio mi son preso tutte le libertà possibili e immaginabili e poi mi sono accorto che c’era una grande cosa (la più grande) che potevo fare. Prima di morire mi voglio prendere anche questa libertà di dir Messa». Il 13 luglio 1947 fu ordinato sacerdote nel duomo di Firenze e l’indomani celebrò la prima messa a San Michele Visdomini, nella chiesa dell’amato don Raffaele Bensi. Ma subito dopo iniziò la via crucis: dove collocare quel prete, così fuori dalle righe? Provvisoriamente la Curia lo mandò cappellano a Montespertoli, finché mons. Tirapani, ricordando le insistenze di don Pugi, parroco di San Donato a Calenzano – una pieve millenaria, tra Prato e Firenze –, gli scrisse: «Abbiamo un tipo che nessuno vuole: un ragazzo d’una famiglia mezza ebrea, che già in seminario ha fatto molto confondere. Se tu te la senti di prenderlo e di provare…». Don Pugi rispose: «A me va bene in tutti i modi, purché dica Messa e confessi».

Missionario per le strade di San Donato

Don Milani arrivò a San Donato il 9 ottobre 1947, in una sera di fitta pioggia, e trovò ad accoglierlo il suono delle campane, don Pugi e una quindicina di giovani. Fin dall’inizio il suo obiettivo fu abbattere i muri divisori tra Dio e i non credenti, tra il Vangelo e i «lontani», tra il prete e i poveri, e capì subito che per raggiungerlo non doveva stare in parrocchia, ma andare a cercare gli «infedeli» nelle case, nelle fabbriche, nelle Case del popolo e farsi, come insegna san Paolo, «tutto a tutti» (1 Cor 9,22): non solo povero tra i poveri e orfano tra gli orfani, ma anche, in un mondo ormai avviato verso la guerra fredda, operaio tra gli operai e «comunista tra i comunisti». Per questo prese la bicicletta e diventò missionario del Vangelo, girando per le campagne e le fabbriche di San Donato, dove tra i 1.200 abitanti – in gran parte operai nelle aziende tessili di Prato, ma anche contadini, muratori e artigiani –, forte era la divisione politica tra democristiani e comunisti: i primi frequentavano la parrocchia, specialmente i circoli Acli, e i secondi, ben più numerosi, si riunivano nella Casa del popolo. Prima sua preoccupazione fu di essere credibile agli occhi dei parrocchiani, e in tale ottica avvertì ben presto che i mezzi usati, specie per attirare i giovani, non erano quelli giusti. Non serviva il ping pong, né il pallone e ancor meno il circolo ricreativo per convincere un giovane a venire in parrocchia. Anzi, col suo tipico massimalismo, giudicò quei mezzi «indegni di un prete». Era necessario combattere la mancanza di cultura: vero ostacolo sia all’evangelizzazione, sia all’elevazione morale del popolo.

Inoltre, nel fare catechismo ai parrocchiani riscontrò che non solo la cultura religiosa del popolo era quasi nulla, nonostante le tante ore dedicate all’insegnamento della religione nella scuola statale, ma che addirittura mancava una vera e propria istruzione di base. Conclusione: prima di esercitare il ministero sacerdotale, doveva farsi maestro, e la scuola serale sarebbe diventata il mezzo per colmare l’abisso culturale che gli impediva di essere capito dal suo popolo. Andò a cercare i giovani contadini e operai di San Donato, entrò nelle loro case, sedette alle loro tavole, convincendoli a frequentare la scuola popolare serale. Infatti, secondo don Milani, il vero bene dei poveri, come dei lavoratori, non si promuoveva col pallone o il gioco delle carte, bensì con l’istruzione, per rendere possibile una rivoluzione nell’ordine sociale. Osservava infatti: «La povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo, ma sul grado di cultura e sulla funzione sociale», così come la distinzione in classi sociali «non si può fare sull’imponibile catastale ma sui valori culturali». Quindi, attraverso la cultura si poteva raggiungere un duplice obiettivo: consentire al povero di elevarsi al rango dei benestanti e aiutarlo a comprendere l’insegnamento religioso.

L’insegnamento puntava sulla lingua e la parola, che considerava una chiave di accesso al mondo delle classi elevate, ma anche sulla musica, sul disegno, sull’attualità; tanto che ogni venerdì arrivava uno dei suoi amici a far lezione. Il Vangelo vissuto e predicato con estremo rigore divenne per don Milani la chiave di volta per dipanare le intrigate vicende italiane. Lui era per tutti, comunisti compresi, benché sapesse che in un’Italia lacerata dalle divisioni politiche e sociali non era possibile tollerare, né tanto meno comprendere, scelte autonome. Per chiarire la sua posizione, nel 1950 scriveva a Pipetta, un giovane attivista comunista che pensava fosse dei suoi: «È un caso sai che mi trovi a lottare con te contro i signori. Ma il giorno in cui avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente [dato che tu allora sarai nei palazzi] a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso».

Furono proprio le elezioni politiche del 1953 a creargli le prime gravi tensioni, perché, sulla base delle esperienze fatte, anziché seguire le istruzioni della Curia fiorentina e invitare a votare Dc, fece una netta distinzione tra cattolici e non credenti. E se ai primi chiese un voto ragionato – ossia scegliere tra i candidati Dc quelli che avrebbero potuto difendere meglio gli interessi dei poveri –, ai secondi non diede alcuna indicazione. Questo atteggiamento alimentò il dissenso nei suoi confronti, e mons. Tirapani, non comprendendo quelle innovazioni – che anticipavano la distinzione di Giovanni XXIII tra errore ed errante fatte nella Pacem in terris –, lo accusò di fare il gioco delle sinistre. A peggiorare la situazione si aggiunse nell’estate del 1954 il funerale di Libero, un operaio comunista, durante il quale i rappresentanti del Pci esposero in chiesa una bandiera rossa. Don Lorenzo non se la sentì di reagire in quel momento, ma questo fatto infuocò ancor più il clima, e quando il 2 settembre 1954 morì don Daniele Pugi, fu chiaro che non lo avrebbero lasciato a San Donato.

I ricordi di quegli anni – degli amici incontrati, degli operai e dei contadini che avevano frequentato la scuola, del metodo pastorale utilizzato – divennero, il 25 marzo 1958, un libro dal titolo Esperienze Pastorali, edito dalla Libreria Editrice Fiorentina con l’imprimatur del card. Elia Dalla Costa, concesso dopo l’interessamento di don Raffaele Bensi, di Giorgio La Pira e la prefazione del vescovo di Camerino, mons. Giuseppe D’Avack. In quello che lui stesso definì un «album di ricordi», don Lorenzo raccontò il tentativo fatto a San Donato di adattare la pastorale imparata in seminario a una realtà sociale, culturale, economica e religiosa del tutto impreparata ad accoglierla. Contro lo spreco di tempo scriveva ai preti: «Se una notte qualcuno vi scrivesse sulla porta del ricreatorio: “Luogo per il metodico sperpero d’uno dei più grandi doni di Dio” che gli vorreste fare? Non vi resterebbe altro ripicco che quello di andare la notte dopo a scrivere sulla porta del ricreatorio comunista e delle case di tolleranza: “Luogo dove invece di sperperare uno solo dei doni di Dio se ne sperpera più d’uno”. Ma ci sarebbe poca soddisfazione perché la differenza non è, in conclusione, sostanziale».

E ancora, raccontando quel che aveva imparato facendosi missionario tra la gente, affermava la priorità della lotta in difesa degli ultimi e dei poveri, l’obbligo di abbattere il muro dell’ignoranza civile e la volontà di mettere in atto una pastorale alternativa, fondata su un’opera di promozione umana, che ponesse al centro l’insegnamento della parola. Secondo don Milani i cristiani avrebbero dovuto avere un partito che «tenesse per statuto il Magnificat», ma se questo rimaneva un ideale utopico, allora il prete doveva avere la possibilità di «far lui scuola con questo classismo ferreo. Un “classismo” da far paura al più ortodosso dei comunisti», perché in fatto di problemi sociali e politici «bisogna aver le idee chiare. […] Non bisogna essere interclassisti, ma schierati. Bisogna ardere dell’ansia di elevare il povero a un livello superiore. Non dico a un livello pari a quello dell’attuale classe dirigente. Ma superiore: più uomo, più spirituale, più cristiano, più tutto».

Un messaggio di speranza chiamato Barbiana

Mons. Tirapani per don Lorenzo scelse Barbiana, un cumulo di case sul monte Giovi nell’Appennino tosco–emiliano, frazione del Comune di Vicchio di Mugello: un posto sperduto, senza acqua né energia elettrica, abitato soltanto da montanari e pastori. Partì da San Donato il 6 dicembre 1954, ma perfino il trasloco fu arduo: il camion non riuscì a salire fino alla canonica, per le cattive condizioni della strada, tutta fango e neve. Portate a piedi le poche cose che gli servivano, insieme a Eda, la fedelissima governante, e ad alcuni amici, la mattina seguente di buonora si recò a Vicchio, bussò alla porta del parroco, don Renzo Rossi, e si fece accompagnare in municipio per comprare una tomba, sostenendo che questo lo avrebbe fatto sentire «totalmente legato alla sua nuova gente nella vita e nella morte». Don Milani volle subito incontrare le nuove persone che gli erano state affidate: un centinaio di contadini, montanari, gente povera e ignorante, che viveva ai margini della società e col poco che strappava a un duro lavoro.

A quella vista, non resistendo a una così grande ingiustizia sociale e a tanta povertà, donò loro tutto l’amore e la cultura che possedeva, aprendo una scuola. Era infatti ormai chiara, per lui, questa idea–forza e guida: a causa della povertà non si va a scuola, ma il non andare a scuola genera povertà. E pure a Barbiana l’insegnamento era basato sulla parola, come mezzo per affermare la propria identità e per essere solidali con gli altri uomini e, ancor più che a San Donato, non volle trasmettere ai ragazzi un annuncio religioso, ma un messaggio profetico, il cui fulcro stava nel passaggio dallo stato d’inerzia a quello di libertà, dallo stato di subordinazione a quello di autonomia, ma soprattutto dalla timidezza radicata in quei montanari alla capacità di affrontare il mondo.

Quella scuola, aperta 365 giorni l’anno, era caratterizzata da un profondo legame con la vita e i problemi sociali – dallo sfruttamento all’indifferenza –, e da una severità e apertura fuori del comune. Lorenzo insegnava, insieme alle materie classiche, le lingue, la pittura e la politica, ma anche la semplice consultazione degli orari del treno o di una carta stradale. Spesso arrivavano amici, ospiti, personaggi più o meno noti che, senza fare distinzioni, faceva accomodare tra i ragazzi per poi sottoporli a una sorta di terzo grado, perché l’importante era ascoltare e imparare qualcosa da ogni visita, da ogni parola così come da ogni lettera ricevuta, che perciò veniva letta davanti a tutti. E fu proprio a Barbiana che decise, pur temendo di non esser compreso, di pubblicare Esperienze Pastorali, il libro maturato nel periodo di San Donato.

Inizialmente le reazioni della stampa cattolica furono positive, o almeno sorprese dai contenuti rivoluzionari di quest’opera, mentre Arturo Carlo Jemolo, in La Stampa di Torino, scriveva: «Al credente dirò che nessuna contingenza economica e storica può impedire che la lava ardente della parola di Cristo continui a scorrere mediante la Chiesa, pur sotto grossi strati di lava raffreddata e corrosa». Ben presto tuttavia, a causa delle pressioni della Curia fiorentina sulla Segreteria di Stato, il libro fu sottoposto alle pesanti critiche di varie testate, culminate nell’articolo di Angelo Perego, sulla Civiltà Cattolica del 20 settembre 1958, dove leggiamo: «Il libro non è sul giusto binario, non corre nel senso dell’edificazione, non chiarisce le idee, non convalida le buone volontà, ma al contrario, confonde le menti, esaspera gli spiriti, scalfisce la fiducia nella Chiesa». La pubblicazione di quelle pagine determinò un cambio di rotta nella stampa ecclesiastica e filogovernativa, con giudizi prevalentemente negativi, mentre il Sant’Uffizio aprì un’inchiesta, conclusasi il 10 dicembre 1958 con la condanna del libro e il suo ritiro dal commercio.

Don Lorenzo, esattamente come dopo San Donato, mantenne un atteggiamento di obbediente ribellione: continuò a vivere il Vangelo sine glossa e si inchinò ai dettami della Chiesa rispondendo, a quanti gli chiedevano come facesse: «Non potrei vivere nella Chiesa neanche un minuto se dovessi viverci in questo atteggiamento difensivo e disperato. Io ci vivo, ci parlo e ci scrivo con la più assoluta libertà di parola, di pensiero, di metodo, di ogni cosa. Se dicessi che credo in Dio direi troppo poco perché gli voglio bene. E capirai che voler bene a uno è qualcosa di più che credere nella sua esistenza!». Col tempo anche quelle polemiche si placarono, ma quando il 12 febbraio 1965 apparve su La Nazione una lettera dei cappellani militari, che definivano l’obiezione di coscienza «un insulto alla patria e ai caduti», in quanto espressione di viltà del tutto estranea al comandamento dell’amore cristiano, don Milani avvertì l’impulso di non poter esimersi dal rispondere pubblicamente.

«Lettera ai cappellani» e «Lettera a una professoressa»

Nella Lettera ai cappellani militari, spedita in 800 copie a tutti i giornali cattolici e pubblicata per intero soltanto dal settimanale del Pci, Rinascita (6 marzo 1965), si legge: «Non discuterò l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato e privilegiati e oppressori dall’altro». Richiamando poi l’art. 11 della Costituzione – «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli» –, don Milani argomentò che in nome della Patria il nostro Paese aveva combattuto una serie di guerre ingiuste, a eccezione di quella partigiana, unica difensiva, per cui i cappellani militari non solo avrebbero dovuto educare i soldati all’obiezione anziché all’obbedienza – in questo preciso contesto va letta, pena gli equivoci che scatenò, la frase: «L’obbedienza non è più una virtù» -, ma inoltre avrebbero dovuto offrire sostegno ai giovani finiti in carcere, proprio «per aver obiettato in nome di Dio». Di qui l’accorata esortazione finale ai cappellani: «Aspettate a insultarli. Domani forse scoprirete che sono dei profeti. Certo il luogo dei profeti è la prigione, ma non è bello star dalla parte di chi ce li tiene».

Ovviamente anche questo intervento scatenò polemiche e reazioni, sfociate nella denuncia, presentata da sei ex–combattenti, contro don Milani e il direttore di Rinascita, Luca Pavolini, suo amico d’infanzia, per incitamento alla diserzione. Già gravemente malato – fin dal 1960 apparvero i primi sintomi di quello che gli sarà diagnosticato, poco tempo dopo, come morbo di Hodgkin –, don Lorenzo non si recò all’udienza fissata per il 30 ottobre a Roma, ma inviò uno scritto, Lettera ai giudici, in cui, dopo aver parlato della scuola di Barbiana e del suo ruolo di educatore e di parroco, affermava: «Devo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I Care”. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. “Me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario esatto del motto fascista “Me ne frego”. Quando quel comunicato era arrivato a noi era già vecchio di una settimana. Si seppe che né le autorità civili, né quelle religiose avevano reagito. Allora abbiamo reagito noi».

C’era tutto don Lorenzo in quella difesa, e infatti fu assolto in primo grado. Nonostante il peggioramento delle sue condizioni di salute – già da tempo faceva lezione seduto su una sedia a sdraio –, insieme ai suoi allievi tornò a occuparsi della stesura di un dattiloscritto sulla scuola, che, prendendo spunto dalle disavventure scolastiche di tre ragazzi di Barbiana bocciati ingiustamente all’istituto magistrale, denunciava i gravi problemi della scuola pubblica e la sua assoluta mancanza di contenuti.

Il libro, Lettera a una professoressa – che uscì nel maggio 1967, un mese prima della sua morte –, racchiudeva l’unicità della scuola di Barbiana, il suo essere severa, impegnativa, attenta e aperta ai problemi del mondo, espressione di una cultura collettiva in cui la scelta di classe era in realtà condivisione, confronto e non prevalenza del singolo come nella scuola pubblica. Infatti, all’interno di quella canonica adibita ad aula scolastica non si accettava l’ingiustizia o l’emarginazione dei deboli, ma ci si aiutava a vicenda, si era poveri e uniti, impegnati e responsabili, perché soltanto in questo modo era possibile diventare cittadini sovrani in grado di cambiare un mondo ingiusto e selettivo.

Don Milani attribuiva alla scuola il fine grande e onesto di «dedicarsi al prossimo», sosteneva l’esigenza di diffondere una cultura pronta a difendere gli ultimi anziché abbandonarli: «Chi era senza basi, lento o svogliato si sentiva il preferito. Veniva accolto come voi accogliete il primo della classe. Sembrava che la scuola fosse tutta per lui», e ricordava a un Occidente ormai indifferente verso i più deboli che «Barbiana non è un nome emblematico, Barbiana non è più in Mugello: Barbiana è in Africa, è nel Medio Oriente, Barbiana è nell’America Latina. Le Barbiane del mondo dicono che noi ci comportiamo come se il mondo fossimo noi».

Ormai immobilizzato nel letto dalla sofferenza, don Lorenzo Milani non solo volle essere circondato soltanto da quanti lo amavano profondamente, ma rimase legato fino all’ultimo respiro al messaggio di speranza che Barbiana rappresentava, a quell’ostinato I care che aveva guidato ogni sua battaglia. E quando il 25 aprile 1967, costretto a lasciare Barbiana e a rientrare in famiglia, per l’aggravarsi della malattia, bruciò molti documenti e ordinò ai suoi ragazzi di chiudere la scuola, perché il suo «segreto pedagogico non era esportabile», troviamo qui il nucleo del suo messaggio. Purtroppo, proprio questo suo testamento venne trascurato o frainteso da vari suoi epigoni, compromettendo l’anima profonda dell’eredità di don Milani. Un’eredità sostanzialmente incentrata nell’amore per gli ultimi, che lo aveva trasformato in uno di loro, ma sopratutto in quella fede che gli aveva permesso di restare sempre e comunque, addirittura faziosamente, dalla parte del Vangelo.