di DANIELE MASTROGIACOMO

“Sono un contadino nell’animo”; “Ho dato un senso alla mia vita, morirò felice”; “Ho il destino dell’avanguardia”; “La cultura è figlia delle stronzate”. Filosofo e politico, José Alberto Mujica Cordano, da tutti chiamato Pepe Mujica, ci ha lasciato grappoli di frasi che amava sparare come aforismi. Il noto ex guerrigliero tupamaro, faro della sinistra latino-americana, più volte ministro e quindi presidente dell’Uruguay dal 2010 al 2015, si è spento a pochi giorni dei 90 anni che avrebbe compiuto il prossimo 20 maggio.

Il cancro all’esofago se l’è portato via come lui stesso aveva pronosticato il 9 gennaio scorso quando annunciò a chi gli voleva bene e al resto del mondo che non avrebbe insistito nell’accanirsi contro un male che gli stava corrodendo il fisico. “Il tumore all’esofago”, aveva detto ai giornalisti che erano accorsi alla sua storica casa di campagna nella periferia di Montevideo, dove aveva vissuto fino alla fine con la sua compagna e moglie Lucía Topolansky, “sta colonizzando il fegato. Non posso fermarlo con niente. Perché sono anziano e perché ho due malattie croniche”. Quindi aveva concluso con una rivendicazione: “Il mio corpo non ce la fa più. Il mio ciclo è finito e un guerrigliero ha diritto a riposare”.

Ne aveva tutti i diritti Pepe, dopo aver dato molto alla vita e agli altri. Figlio di un padre di origini basche e di una madre con lontane radici italiane (Favale di Malvaro, in provincia di Genova), il presidente “più povero al mondo”, come amava descriversi visto che donava a organizzazioni volontarie e di solidarietà il 90 per cento dei suoi 8.300 euro al mese di stipendio da Capo di Stato, trascorse un’infanzia segnata dalla povertà. I suoi genitori avevano comprato due ettari di terreno da coltivare a vite che alla fine sono costretti a vendere. Fu allora che Pepe, oltre ad essere un ciclista quasi professionista, iniziò ad amare i fiori e le piante trasformandosi in un giardiniere provetto.

Grazie allo zio materno, Agel Cordano, fervente nazionalista e peronista, si appassionò alla politica che lo forgiò per il resto della sua esistenza. Nei primi anni Sessanta del secolo scorso aderisce al neonato Movimiento de Liberación Nacional, un’organizzazione urbana marxista-leninista ispirato alla rivoluzione cubana e alla difesa dei diritti dei lavoratori della canna da zucchero. Il gruppo divenne noto come Tupamaros e con questo Mujica partecipa a numerose azioni, tra cui una breve occupazione della città di Pando.

Il suo nome è sempre più noto. Viene arrestato nel 1979. È ferito da sei colpi. Lo ricorda lui stesso. Chiacchierava con alcuni amici in un bar di Montevideo. Un parrocchiano li riconosce come guerriglieri. Avvisa la polizia che circonda il posto e inizia a sparare. Viene ricoverato all’ospedale militare, lo salverà un chirurgo. “Era un compagno, un Tupa del basso”, rammenta, “mi ha dato un secchio di sangue e mi ha salvato. E’ come credere in Dio”. Ateo fino in fondo, lo arresteranno altre tre volte dopo essere evaso con un’azione rocambolesca.

Lo considerano un nemico pericoloso e ostinato, sarà condannato e per 12 anni resterà rinchiuso come un topo in un carcere che in realtà è un pozzo sotterraneo. Costretto a rimanere quasi sempre in piedi o piegato perché il soffitto è troppo basso. In isolamento, senza cibo, con uscita all’aria aperta solo una volta al mese. Diventa uno dei 9 dirigenti tupamaros prigionieri che la dittatura civile-militare chiamava rehenes, ostaggi. Avrebbero pagato con la vita se ci fossero state altre azioni della guerriglia all’esterni.

Viene liberato, grazie ad un’amnistia, solo nel 1985 quando è ristabilita la democrazia. Ma il suo fisico, piegato da una prigionia peggiore di una tortura, lo ha reso più fragile e con conseguenze che hanno accelerato lo sviluppo di un tumore. Pepe Mujica non ha perso tempo nel rancore. Ha avuto chiari fino all’ultimo i principi e i valori che lo hanno guidato nella sua vita. "La morte rende la vita un’avventura", amava ripetere. "Perché è la cosa più preziosa, l’avventura di essere vivi. La vera domanda è come trascorriamo il nostro tempo nella vita".

È rimasto fedele a questo principio. “Non ho avuto una vita sprecata, perché non ho trascorso la mia vita solo consumando. Ho trascorso il tempo sognando, lottando, lottando”. Di qui, lo sforzo a non perdersi nel consumismo ossessivo, nella corsa frenetica a comprare nuove cose. “Stiamo costruendo società auto-sfruttate”, ricordava, “hai tempo per lavorare ma non per vivere”. Per questo viveva in sobrietà. La sua casetta di campagna che curava con la moglie anche da presidente, il suo maggiolino Wolkswagen del 1987 che non ha mai più venduto, la profonda amicizia con Lula con cui ha condiviso battaglie e lunghe discussioni.

Si è battuto con saggezza e ostinazione. Il suo impegno politico lo ha portato a conquiste sociali rivoluzionarie per un paese come l’Uruguay durante i cinque anni da presidente: l’aborto legalizzato, la libera unione tra persone dello stesso sesso, la depenalizzazione dell’uso della marijuana. Pepe Mujica è morto in pace con se stesso. Ha vissuto fino all’ultimo quell’esistenza che tanto amava e che è riuscito a non sprecare

l’Uruguay con la sua presidenza

di Daniele Mastrogiacomo

Addio a Pepe Mujica, il contadino-tupamaro che ha rivoluzionato l’Uruguay con la sua presidenza(reuters)

José Alberto Mujica Cordano, faro della sinistra latino-americana (più volte ministro e presidente dal 2010 al 2015) si è spento alla soglia dei 90 anni per un cancro all’esofago. Ha sempre vissuto nella sua casa di campagna di Montevideo

“Sono un contadino nell’animo”; “Ho dato un senso alla mia vita, morirò felice”; “Ho il destino dell’avanguardia”; “La cultura è figlia delle stronzate”. Filosofo e politico, José Alberto Mujica Cordano, da tutti chiamato Pepe Mujica, ci ha lasciato grappoli di frasi che amava sparare come aforismi. Il noto ex guerrigliero tupamaro, faro della sinistra latino-americana, più volte ministro e quindi presidente dell’Uruguay dal 2010 al 2015, si è spento a pochi giorni dei 90 anni che avrebbe compiuto il prossimo 20 maggio.

Il cancro all’esofago se l’è portato via come lui stesso aveva pronosticato il 9 gennaio scorso quando annunciò a chi gli voleva bene e al resto del mondo che non avrebbe insistito nell’accanirsi contro un male che gli stava corrodendo il fisico. “Il tumore all’esofago”, aveva detto ai giornalisti che erano accorsi alla sua storica casa di campagna nella periferia di Montevideo, dove aveva vissuto fino alla fine con la sua compagna e moglie Lucía Topolansky, “sta colonizzando il fegato. Non posso fermarlo con niente. Perché sono anziano e perché ho due malattie croniche”. Quindi aveva concluso con una rivendicazione: “Il mio corpo non ce la fa più. Il mio ciclo è finito e un guerrigliero ha diritto a riposare”.

Ne aveva tutti i diritti Pepe, dopo aver dato molto alla vita e agli altri. Figlio di un padre di origini basche e di una madre con lontane radici italiane (Favale di Malvaro, in provincia di Genova), il presidente “più povero al mondo”, come amava descriversi visto che donava a organizzazioni volontarie e di solidarietà il 90 per cento dei suoi 8.300 euro al mese di stipendio da Capo di Stato, trascorse un’infanzia segnata dalla povertà. I suoi genitori avevano comprato due ettari di terreno da coltivare a vite che alla fine sono costretti a vendere. Fu allora che Pepe, oltre ad essere un ciclista quasi professionista, iniziò ad amare i fiori e le piante trasformandosi in un giardiniere provetto.

Grazie allo zio materno, Agel Cordano, fervente nazionalista e peronista, si appassionò alla politica che lo forgiò per il resto della sua esistenza. Nei primi anni Sessanta del secolo scorso aderisce al neonato Movimiento de Liberación Nacional, un’organizzazione urbana marxista-leninista ispirato alla rivoluzione cubana e alla difesa dei diritti dei lavoratori della canna da zucchero. Il gruppo divenne noto come Tupamaros e con questo Mujica partecipa a numerose azioni, tra cui una breve occupazione della città di Pando.

Il suo nome è sempre più noto. Viene arrestato nel 1979. È ferito da sei colpi. Lo ricorda lui stesso. Chiacchierava con alcuni amici in un bar di Montevideo. Un parrocchiano li riconosce come guerriglieri. Avvisa la polizia che circonda il posto e inizia a sparare. Viene ricoverato all’ospedale militare, lo salverà un chirurgo. “Era un compagno, un Tupa del basso”, rammenta, “mi ha dato un secchio di sangue e mi ha salvato. E’ come credere in Dio”. Ateo fino in fondo, lo arresteranno altre tre volte dopo essere evaso con un’azione rocambolesca.

Lo considerano un nemico pericoloso e ostinato, sarà condannato e per 12 anni resterà rinchiuso come un topo in un carcere che in realtà è un pozzo sotterraneo. Costretto a rimanere quasi sempre in piedi o piegato perché il soffitto è troppo basso. In isolamento, senza cibo, con uscita all’aria aperta solo una volta al mese. Diventa uno dei 9 dirigenti tupamaros prigionieri che la dittatura civile-militare chiamava rehenes, ostaggi. Avrebbero pagato con la vita se ci fossero state altre azioni della guerriglia all’esterni.

Viene liberato, grazie ad un’amnistia, solo nel 1985 quando è ristabilita la democrazia. Ma il suo fisico, piegato da una prigionia peggiore di una tortura, lo ha reso più fragile e con conseguenze che hanno accelerato lo sviluppo di un tumore. Pepe Mujica non ha perso tempo nel rancore. Ha avuto chiari fino all’ultimo i principi e i valori che lo hanno guidato nella sua vita. "La morte rende la vita un’avventura", amava ripetere. "Perché è la cosa più preziosa, l’avventura di essere vivi. La vera domanda è come trascorriamo il nostro tempo nella vita".

È rimasto fedele a questo principio. “Non ho avuto una vita sprecata, perché non ho trascorso la mia vita solo consumando. Ho trascorso il tempo sognando, lottando, lottando”. Di qui, lo sforzo a non perdersi nel consumismo ossessivo, nella corsa frenetica a comprare nuove cose. “Stiamo costruendo società auto-sfruttate”, ricordava, “hai tempo per lavorare ma non per vivere”. Per questo viveva in sobrietà. La sua casetta di campagna che curava con la moglie anche da presidente, il suo maggiolino Wolkswagen del 1987 che non ha mai più venduto, la profonda amicizia con Lula con cui ha condiviso battaglie e lunghe discussioni.

Si è battuto con saggezza e ostinazione. Il suo impegno politico lo ha portato a conquiste sociali rivoluzionarie per un paese come l’Uruguay durante i cinque anni da presidente: l’aborto legalizzato, la libera unione tra persone dello stesso sesso, la depenalizzazione dell’uso della marijuana. Pepe Mujica è morto in pace con se stesso. Ha vissuto fino all’ultimo quell’esistenza che tanto amava e che è riuscito a non sprecare