di RAFFAELE SCHETTINO
«Non voglio mai parlare con la stampa italiana» e giù il sorrisino sgradevole di chi ha la percezione di poter dire ogni cosa senza subire alcuna conseguenza. Il fuori onda che riprende la gag tra Giorgia Meloni e Donald Trump è un manifesto di quanto praticato ogni santo giorno dal potere contemporaneo. Si evita il confronto, si detta la narrazione, si silenziano le domande, che sono percepite come un fastidioso ronzio.
Giorgia Meloni è solo l’ultimo plastico esempio del disprezzo dei potenti nei confronti del giornalismo, un malcostume che ha messo radici profonde anche in Italia, che ha toccato il punto più basso quando il Paese ha avuto la sventura di finire nelle mani del governo gialloverde (Lega-M5s). La stampa trattata come un nemico da delegittimare, giornalisti etichettati come sciacalli, pennivendoli, giornalai, puttane, infami. Un festival dell’idiozia politico-istituzionale che ha finito per contagiare tutti, amplificandosi nell’arena social. Nessuno ha sentito l’esigenza di invertire la rotta, al contrario: si è continuato a lavorare, consciamente o no, al consolidamento di una cultura del potere che considera l’informazione una minaccia da evitare o da piegare.
Il leader (varrebbe la pena soffermarci sul senso di questa parola) ora non risponde più. Al massimo comunica. Preferibilmente da solo o guidato da improvvisati guru dell’immagine e della comunicazione. Si prediligono i social, dove il monologo è legge e il pubblico è una claque. Le conferenze stampa? Roba del passato. Il contraddittorio? Un fastidio. Le domande? Un rischio da neutralizzare. Presidenti di regione, sindaci, altre cariche locali adottano quasi tutti lo stesso copione: evitano i giornalisti, parlano con amici, influencer, uffici stampa.
Si prova a svilire la stampa, a ignorarla, a offenderla, ridicolizzarla, umiliarla. la si mette all’indice con disprezzo e odio e la conseguenza è inevitabile: giornalisti minacciati, delegittimati, isolati. Alla faccia delle mille iniziative ipocrite messe in piedi per far finta di onorare la memoria di cronisti che son caduti per tener fede al senso della loro missione.
Ma cosa fa la categoria dei giornalisti per cambiare le cose? Purtroppo spesso ha taciuto. Troppe volte ha abbassato la testa. In alcuni casi spregevoli s’è piegata alle logiche insopportabili degli arroganti, ora per comodità, ora per timore reverenziale, ora per interesse. In generale, il giornalismo ha subito in silenzio i tentativi di svilimento del proprio ruolo. Non ha saputo condurre una battaglia che doveva essere durissima, peggio ancora, non ha saputo fare sistema e fronte comune. Qualcuno s’è addirittura illuso di potersi salvare mettendosi al di sopra del giornalismo stesso, cercando una consacrazione effimera da opinion leader.
La verità è che quando i potenti, o le istituzioni, non rispondono più alle domande, o fanno di tutto per sovvertire le regole, si è già arrivati al punto di non ritorno. Non è solo una questione di stile. È una ferita sanguinante alla democrazia. Con la complicità di tutti: il potere che non si sottopone alle domande è un potere che rifiuta la trasparenza. E un giornalismo che non pretende risposte, è un giornalismo che smette di essere libero.
Se vogliamo ancora vivere in una Repubblica fondata sul diritto di sapere, serve una sveglia collettiva. Le istituzioni devono accettare di dover dar conto. La stampa deve difendere sé stessa e la propria missione. I cittadini devono tornare a chiedere di essere informati, non intrattenuti. E se tutto questo non avviene, il giornalismo non può smettere di lottare, perché non si può arretrare davanti alla squallida arroganza dei potenti, non si può subire il tentativo di mettere a tacere l’informazione.