(Foto Ansa)

di FILIPPO LIMONCELLI

Il 4 settembre 2024, Pamela Genini si recò al pronto soccorso di Seriate con un dito rotto e diversi graffi agli arti, dichiarando di essere stata aggressa dal compagno Gianluca Soncin, lo stesso uomo che un anno dopo l’avrebbe uccisa a Milano con oltre trenta coltellate, tre delle quali al cuore.

Durante la visita, Pamela compilò il questionario antiviolenza “Brief Risk Assessment”, previsto dalle linee guida del Ministero della Salute per i casi di sospetto maltrattamento. Alle domande su violenza crescente, gelosia estrema e uso o minaccia con armi, rispose sì in almeno tre dei cinque quesiti, indicando un pericolo elevato. Quando le chiesero “Crede che lui sia capace di ammazzarla?”, Pamela rispose chiaramente “Sì”.

Nonostante questo esito allarmante, il codice rosso, procedura che impone misure di protezione immediate e coinvolgimento della magistratura, non fu attivato. La giovane iniziò il percorso ospedaliero alle 10.33, con priorità 2 al triage. Raccontò i dettagli della violenza avvenuta la sera precedente a Cervia, comprese aggressioni fisiche e precedenti violenze sessuali. Alle 14.08 compilò il test di rischio, mentre poco dopo un traumatologo le assegnò 20 giorni di prognosi. Tuttavia, nel verbale sanitario comparve la nota: “Non vi è indicazione ad attivazione del codice rosso”.

Il fallimento del sistema di protezione

Dopo l’esito del test, la procedura di protezione si perde tra passaggi burocratici. I carabinieri di Seriate acquisirono il referto e lo inviarono ai colleghi di Cervia, poiché l’aggressione era avvenuta lì. Da Ravenna risposero chiedendo di formalizzare la denuncia, ma Pamela rifiutò di presentarla.

L’episodio fu registrato come “presunta violenza di genere”, ma non venne inserito nella piattaforma “Scudo”, strumento utilizzato per monitorare i casi ad alto rischio anche senza denuncia. Nessun fascicolo arrivò alle Procure di Bergamo o Ravenna, né furono attivate segnalazioni alle Questure per misure preventive.