L’intervista pretesa — e poi rifiutata — da Sergej Lavrov è diventata, suo malgrado, un piccolo trattato sulla comunicazione del potere nel 2025. Non tanto per ciò che avrebbe detto il ministro russo, ma per ciò che ha imposto: domande inviate, risposte scritte, nessuna possibilità di replica. Un’intervista si è trasformata in una sceneggiatura scritta dall’intervistato. Ma ormai le interviste scritte dei politici sono la prassi.
La cosa sorprendente è che molti si siano stupiti. Perché questo schema, in Italia, è ormai la regola silenziosa del rapporto tra politica e giornalismo.
Negli ultimi anni il potere ha capito che gli basta il formato per dominare il contenuto. Vuoi evitare domande scomode? Pretendi un’intervista scritta. Vuoi evitare un titolo non gradito? Imposta tu le condizioni e il tono. Vuoi aggirare i giornali? Parla direttamente su TikTok o in un video su Instagram. Nessuno ti interromperà. La pretesa del “testo approvato” non è più un’eccezione, è una prassi. Una prassi che svuota l’intervista del suo senso: il contraddittorio. Oggi, invece, quello che arriva nelle redazioni non è un dialogo ma un file Word già pulito dagli staff, limato dagli spin doctor, calibrato sugli obiettivi di comunicazione. Il giornalista diventa l’ultimo passaggio di una catena produttiva che parte altrove. Chi gestisce il potere pretende questo e, purtroppo, molti giornali e molti giornalisti si sono adeguati.
E non è questione di singoli leader: è un costume trasversale. Giuseppe Conte, nel pieno della pandemia, aveva trasformato le dirette Facebook nella sua piazza politica esclusiva: dodici milioni di italiani collegati, nessuna domanda, nessuna verifica, nessun giornalista ammesso a chiedere chiarimenti sui decreti che chiudevano un Paese intero. Giorgia Meloni, da parte sua, utilizza i social come fortezza e megafono: messaggi calibrati, video senza contraddittorio, conferenze stampa rare e con regole rigidissime. Gli amministratori locali non fanno diversamente: preferiscono il reel alla domanda, la dichiarazione registrata al confronto.
Dalla politica alla geopolitica, il principio non cambia: chi ha il potere pretende di decidere anche come si parla con la stampa. Lavrov è solo l’immagine più brutale di un fenomeno che, in Italia, ha attecchito da tempo. In molti casi, le redazioni accettano perché “altrimenti non ci danno l’intervista”, come se fosse un regalo, non un dovere verso i cittadini.
La verità è che l’intervista scritta è il trionfo della comunicazione a scapito del giornalismo. È perfetta per il potente: non c’è rischio, non c’è imprevisto, non c’è la possibilità che emerga qualcosa di non previsto. È la negazione stessa dell’atto giornalistico, che vive di domanda, replica, chiarimento, verifica.
Il punto non è la malafede dei politici, ma il ribaltamento dei rapporti di forza.
Un tempo erano i giornalisti a porre le condizioni. Oggi sono i politici a dettare la scaletta, a stabilire quali domande sono ammesse, a decidere preventivamente se una risposta può essere pubblicata. E chi prova a rifiutare viene bypassato: il politico apre il telefono e parla direttamente agli elettori, senza mediazione, senza contraddittorio, senza responsabilità.
Il risultato è che una parte dell’informazione italiana si ritrova nel ruolo di passacarte. Pubblica ciò che il potere concede. E la distanza tra cittadino e verità aumenta. Perché il potere ama le interviste scritte? Perché non possono produrre notizie. Possono solo confermare una narrazione già stabilita.
Ed è qui il nodo: il giornalismo italiano ha smesso di rivendicare la sua funzione primaria. Non basta lamentarsi del declino delle redazioni se poi si accetta che il lavoro venga trasformato in un esercizio di stenografia di lusso. Non basta difendere la libertà di stampa se poi si avalla un meccanismo in cui il potente sceglie il formato, il tono e perfino il montaggio.
La questione non riguarda Lavrov: riguarda la democrazia. Riguarda un Paese dove il contraddittorio sta diventando un fastidio e il giornalismo, se non reagisce, rischia di diventare un accessorio della comunicazione del potere. Ma un’informazione senza domande non è più informazione. È propaganda, anche quando non sembra. Perché chiedere domande scritte all’intervistatore o, ancor di più, negare le interviste significa azzerare il confronto, condizione essenziale per il pluralismo informativo.















