di Daniele Mastrogiacomo

Il Perú non sa che fare con il corpo di Abimael Guzmán. Ora che è morto il simbolo del terrore, il fondatore e capo di Sendero Luminoso, l’uomo che nel nome di Mao ha massacrato, assieme alla polizia, 70mila persone, piazzato bombe davanti ai Centri commerciali, fatto saltare tralicci dell’alta tensione, assediato Lima per mesi convinto della necessità della violenza rivoluzionaria per portare la pace rivoluzionaria, persino il suo cadavere diventa un problema. La legge prevede che sia consegnato ai familiari. Ma il Presidente Gonzalo, come veniva chiamato, non ha parenti stretti. L’unica persona che gli è stata vicina fino alla fine è la compagna di vita e di battaglia, Elena Iparraguirre, sposata in carcere, anche lei condannata all’ergastolo e rinchiusa in un penitenziario speciale. Consegnarlo a lei è impossibile. Quindi, bisogna compiere un’altra scelta. Che ha le sue implicazioni politiche e di opportunità.

Se il feroce terrorista peruviano viene sepolto da qualche parte il rischio è che la sua tomba si trasformi in una sorta di santuario che attirerebbe seguaci e curiosi con dei pellegrinaggi che il Perú non ha certo voglia di promuovere. Così, dopo aver negato la consegna del corpo a una rappresentante della moglie, la compagna Bertha, incaricata per procura, il presidente del Consiglio Guido Bellido ha stabilito che la decisione spetta alla magistratura. Per il momento il cadavere di Abimael, morto all’età di 86 anni in ospedale dove era stato trasferito perché in gravi condizioni, resta nell’obitorio del Callao. Il governo vorrebbe chiudere la vicenda con una cremazione, ma vuole anche rispettare i canoni legali per evitare ricorsi e proteste. Con la morte del leader del più sanguinario gruppo terrorista dell’America Latina, chiamato dalle cronache anche il “Pol Pot delle Ande”, a ricordo degli orrori commessi dal capo dei Khmer Rossi in Cambogia, si chiude un ciclo durato venti anni.

Figlio di un facoltoso proprietario terriero di Arequipa e di una contadina, Bererice Reynoso, morta quando lui aveva cinque anni, Abimael viene accolto nella casa paterna dove convive con altri fratelli e sorelle frutto di altrettanti rapporti illegittimi. Riceve un’educazione rigorosa e tradizionale, studia in una scuola privata cattolica, è ammesso all’università dove segue due carriere. Durante gli anni 60 del secolo scorso diventa il capo del personale del Dipartimento di Educazione dell’Università San Cristobál di Huamanga, ad Ayacucho, nelle Ande centrali. Riuscirà anche a laurearsi in Legge e Filosofia e a prendere una cattedra nello stesso Ateneo. Descritto come timido, ossessivo, ascetico dai suoi compagni, viene influenzato da testi e intellettuali che legge e frequenta senza mai emergere pubblicamente. A metà degli anni 70 si butta nell’impegno politico, viene arrestato due volte per partecipazione a manifestazioni di protesta contro il dittatore di sinistra, il generale Velasco Alvarado e poi contro Fernando Belaunde Terry che lo aveva sostituito come presidente. Viaggia in Cina, resta affascinato dalla politica maoista.

Torna a casa, sceglie la linea filo cinese che divide il Partito comunista da quella sovietica e fonda Sendero Luminoso. Si dà alla macchia e inizia la lotta armata. Riuscirà a conquistare fette sempre più larghe di territorio, seguito da migliaia di militanti che lo adorano come un Messia. “Guzmán”, scrive Santiago Roncagliolo, giovane e premiato scrittore peruviano che ha ricostruito bene le sue gesta, “esprime un cocktail sociale che risulterà fatale: la rabbia dei poveri, ereditata da sua madre, sommata alla formazione accademica dei ricchi, dovuta al padre”. Sarà spietato. Con i nemici e con gli stessi militanti. Non ha mai partecipato ad alcuna azione militare. Non aveva neanche una pistola quando è stato arrestato. Probabilmente non ha mai sparato un colpo. Faceva agire gli altri e se un attentato andava male, indiceva un processo sommario e finiva per colpire il responsabile del fallimento. Ha fatto uccidere contadini sospettati di tradimento, poliziotti e militari ritenuti nemici. Si è chiuso nella sua casa da dove dirigeva una rivoluzione che si è trasformata in un terrore sanguinario.

Non appariva mai. Tanto che a un certo punto era dato per morto. Solo l’ostinazione di una squadra di poliziotti, senza mezzi e soldi, è riuscita a scovare il suo covo: un piccolo appartamento in un tranquillo quartiere di Lima. Quando hanno fatto irruzione era circondato dalla sua corte di donne e di uomini che lo adoravano, pendendo letteralmente dalle sue labbra. È stato amato e odiato. Ha tramortito un paese, ha lasciato una scia di sangue e di dolore. Aveva un esercito calcolato in 23.430 soldati, come veniva indicato nel computer che gli venne sequestrato in casa. La sconfitta di Guzmán fu attribuita al capo dell’intelligence Vladimiro Montesinos, l’uomo che divenne il braccio destro del presidente Alberto Fujimori. Lo stesso che lo trascinò nel baratro di una sconfitta, tra ricatti e corruzione e che decretò la fine del dittatore poi condannato per violazione dei diritti umani, omicidio, rapimento, torture. Una fine ingloriosa. Montesinos fu arrestato e condannato. Si ritrovò nella base della Marina al Callao. Un lugubre sotterraneo trasformato in carcere speciale. Nella cella davanti a lui trovò ad aspettarlo Abimael. Cacciatore e preda che il destino aveva di nuovo riunito dietro le sbarre.