Prima ci hanno catapultati in recessione. Ora, per provare ad uscire dal tunnel, vogliono consegnarci mani e piedi al regime capital-comunista cinese. La capacità del Governo di far danni non smette di stupire. Avevamo avvertito in tempi non sospetti che i finti sovranisti - magari lo fossero - avrebbero finito per dar vita al più gigantesco progetto di asservimento dell’Italia a poteri stranieri dai tempi del 1992. È accaduto con il debito pubblico, la cui crescita - assicurata dai gialloverdi come i loro predecessori - è la migliore garanzia della nostra dipendenza dai mercati finanziari che i falsi sovranisti dicono di voler combattere. E rischia di succedere ora, col memorandum Roma-Pechino che aprirà ancora di più le nostre porte alle merci cinesi. Niente male per quelli che dovevano essere i difensori delle produzioni italiane. L’avesse fatto Berlusconi, l’avrebbero accusato «di svendere l’Italia».
Per provare a rimediare ai disastri della loro politica economica, dunque, i geni di palazzo Chigi hanno deciso di affidarsi alla Cina rossa. Da un accordo sempre più stretto con Pechino, dicono, il nostro export troverà nuovi sbocchi per rilanciare il Pil che loro stessi hanno azzoppato. Il ragionamento filerebbe pure se il premier Conte, per rassicurarci, non avesse detto che «l’Italia è infinitamente meno vulnerabile di altri, che invece sono esposti alla penetrazione economica e commerciale della Cina».
Parole che certificano la scarsa conoscenza dei fondamentali della Nazione che governa: se c’è un Paese esposto ai mercati, a scorribande di speculatori d’ogni risma, ai capricci di fondi sovrani e gruppi d’affari opachi, questo è proprio l’Italia. Vogliono convincerci che quello che stiamo per firmare con la Cina è una semplice intesa commerciale. In tal caso, non sarebbe certo il primo accordo di questo genere che l’Italia firma col Dragone. Perché dunque tanto scandalo? Perché non è così. Un conto sono i commerci, che per l’Italia sono ovviamente questione di vitale importanza - siamo grandi esportatori - altra cosa è un investimento diretto del Governo cinese (che coincide con lo Stato) sulle infrastrutture italiane che entrano in Europa. Perché è di questo che stiamo parlando. Di un atto essenzialmente politico, del quale i commerci sono il mezzo, non il fine. La proposta cinese ha il volto del business, ma in realtà è una novecentesca operazione d’influenza geopolitica che riduce la sovranità dei singoli Paesi che attira nella propria sfera d’influenza. Nel gennaio 2017 il presidente cinese Xi Jinping è diventato l’eroe dei globalisti occidentali pronunciando un forte discorso di apertura al vertice del capitalismo mondiale di Davos. È stato il Partito comunista cinese a spiegare che Pechino intende utilizzare la globalizzazione per consolidare il proprio ruolo di leader imperiale del nuovo secolo. Come? Usando la
propria potenza al di fuori di ogni regola e controllo. A cominciare dal dumping, la sistematica violazione di regole e diritti è da sempre la base di qualsiasi rapporto economico e commerciale che ha come protagonisti i cinesi. Fenomeni che anche nelle nostre città conosciamo benissimo. Per queste e mille altre ragioni, l’atto che l’Italia si appresta a firmare con la Cina è soprattutto politico. Dunque non potrà non avere conseguenze politiche. Si può essere d’accordo o meno, ma non si può far finta che non stia accadendo nulla. Questa non è acqua fresca: è un cambiamento dell’asse della nostra politica estera. Intendiamoci, è giusto valutare le opportunità del mercato asiatico senza pregiudizi, ma è pericolosissimo fingere di non vedere che un accordo diretto col Governo cinese ha a che fare con elementi strategici e di sicurezza (quindi d’indipendenza) nazionali. E quando uno dei due contraenti è molto più debole dell’altro, il rischio della colonizzazione è sempre dietro l’angolo. Erano sovranisti. Abbaiano come pechinesi.

Vincenzo Nardiello