Forse non è la crisi di governo, ma il governo è sicuramente in crisi. Lo si capisce quando si entra nella Sala dei Galeoni, primo piano di Palazzo Chigi. Nella prima fila del luogo dove Giuseppe Conte sta per mettere sul piatto le sue dimissioni ci sono una serie di tegolini che riservano la prima fila. Da Roberto Chieppa, segretario generale della presidenza del Consiglio in giù, c’è tutta la nomenklatura scelta dall’avvocato del popolo italiano per mandare avanti la macchina. Cravatta viola e pochette bianca d’ordinanza, eloquio pacato, il premier la mette giù durissima: “Chiedo ai leader delle forze politiche che mi sostengono di scegliere, e di dirci se hanno intenzione di proseguire come indica il contratto o riconsiderare le loro posizioni, per coltivare l’opzione di un consolidamento o di una opzione elettorale”.

Una goccia di sudore cola dentro il colletto del suo staff. E non è solo per l’improvvisa calura che ha avvolto la capitale, o per la miriade di riflettori che arroventano l’aria del salone. Conte per la prima volta pone un ultimatum: o si mette un freno “a polemiche a mezzo stampa, provocazioni coltivate per mezzo di veline quotidiane, freddure sparate a mezzo social”, o il professore di Firenze è pronto a salire al Quirinale. “Non mi presterò a galleggiare o vivacchiare – tuona – senza un’assunzione di responsabilità rimetterò il mio mandato nelle mani del presidente della Repubblica”. Proprio quel Quirinale che assiste con preoccupazione allo stallo di Governo e che era stato consultato e informato dei contenuti del messaggio dal premier. In sala si susseguono le domande, mentre Conte dà un colpo al cerchio (“Massimo impulso alle autonomie, sentiremo Ue e Francia, ma la Tav al momento è in un percorso costruito”) e uno alla botte (“Serve legge sul virus epidemico del conflitto d’interessi, e misure di sostegno alla famiglia”), gli occhi cerchiati di rosso, la fronte imperlata dal gran caldo.

Si spazientisce quando gli chiedono dei porti chiusi e gli fanno presente che i barconi partono e la gente muore: “Non le permetto di dire che il nostro Governo lascia morire le persone”. Dribbla la domanda sulla lista del presidente in caso di voto anticipato: “Al massimo mi candido ad allenare la Roma”. C’è un momento esatto in cui gli occhi di tutti i cronisti presenti in sala piombano sugli smartphone. Matteo Salvini non aspetta che il premier finisca di parlare, e fa diffondere subito la risposta. Ambigua. Via Facebook. “Noi non abbiamo mai smesso di lavorare, evitando di rispondere a polemiche e anche insulti, e gli italiani ce lo hanno riconosciuto con 9 milioni di voti domenica”.

Poi elenca una lista della spesa dei desiderata leghisti: “Flat tax, riforma della giustizia, decreto Sicurezza bis, autonomia regionale, rilancio degli investimenti, revisione dei vincoli europei e superamento dell’austerità e della precarietà, apertura di tutti i cantieri fermi”. Lo staff trasuda nervosismo, lo legge al meglio come uno sgarbo istituzionale, che chi parla di “affronto”. Il presidente del Consiglio svicola: “Non hanno smesso di lavorare? Allora possiamo vederci”. Poi torna nel suo ufficio. Scorrono le agenzie, il ministro dell’Interno “se ne frega”, continua nella sua girandola di comizi per i ballottaggi che lo terranno fuori Roma almeno fino a giovedì sera. A margine di uno di questi, risponde a chi gli chiede del passaggio in cui Conte ribadisce del rispetto dei vincoli europei. Non è conciliante: “Il voto europeo è stato un voto significativo, gli europei hanno parlato”.

Risponde picche, si direbbe al bar. I suoi scuotono la testa, sempre più preoccupati: “È chiaramente ancora in campagna elettorale, incredibile, il lessico non cambia”. Ma se non dovesse cambiar… Non si fa in tempo a finire la domanda: “Se continua così, il presidente è stato molto chiaro sulle conseguenze”. La sera romana viene ricoperta da nuvole cariche di pioggia, metaforicamente e non. “Ma no, ma no, ma quale crisi”, giurano dalla Lega, con l’intento più che altro di prendere il barile e scaricarlo altrove. Del momento di Luigi Di Maio si è detto e si è scritto molto. Deve cedere, deve lasciare terreno all’avversario, incassare per avere il tempo di riorganizzarsi e ripartire. Ci mette un po’ di più a calibrare la risposta, che affida a Facebook, ma il tenore riflette questa esigenza: “Chiedo finiscano gli attacchi ai ministri del Movimento 5 Stelle, rispettando il lavoro di ognuno e, siccome nel contratto c’è ancora tantissimo da fare, non è certamente il momento per proporre temi divisivi mai condivisi fuori dal contratto”.

Ma “questa è l’unica maggioranza possibile – aggiunge - e che può servire meglio il paese. Andiamo avanti con lealtà e coerenza. Dobbiamo cambiare ancora tante cose”. Chiede un po’ velleitariamente un vertice per domani, (ieri per chi legge) ma benissimo che Conte è in Vietnam, Salvini in una serie di appuntamenti già fissati e ampiamente comunicati in giro per l’Italia. Il leghista fa trapelare che c’è uno spazio nella sua agenda tra il 6 e il 7 e comunque non ha intenzione di modificare i suoi impegni elettorali. Le rivendicazioni di Di Maio sono di tutt’altro tenore, molto più alla portata della lista dei desideri salviniana: salario minimo e misure per la famiglia, con nel mazzo delle cose da fare anche la flat tax. D’altronde i suoi chiedono di andare avanti, di modulare le risposte nelle prossime settimane, di farsi concavi e convessi perché al voto adesso proprio non conviene andare.

Paola Taverna e Francesco D’Uva, due pesi massimi nell’economia movimentista, hanno rilasciato lunedì mattina interviste assai concilianti. “Pronti a votare la flat tax”, si affretta a dire il ministro Giulia Grillo. Sentite un parlamentare di prima legislatura che ben conosce le dinamiche interne: “Abbiamo perso, dobbiamo trarne le conseguenze. È inutile che tanti dei nostri si mettano a fare dichiarazioni divisive. A che titolo parla Di Stefano quando pone le condizioni per non tornare al voto? Che intenzioni ha Fico con le sue dichiarazioni cadute dal pero? E Di Battista che fa il fenomeno? Qui abbiamo da lavorare, da cambiare un paese”. L’inerzia dei peones rema in direzione ostinata e contraria alla crisi. Per il cambiamento, certo, forse un po’ anche per la poltrona. I presagi sono oscuri.

Conte parla e nemmeno ha tempo di posare il microfono che l’estenuante gioco del cerino ricomincia. Salvini continua a stressare la situazione, Di Maio prova a cedere non cedendo. Ma intanto al primo test del rinnovato clima tra M5S e Lega, la riunione convocata proprio da Conte a Palazzo Chigi sul decreto Sbloccacantieri, si prende atto dopo meno di un’ora che non c’è accordo e si torna tutti a casa. E con un timing fenomenale ecco comparire nei radar Danilo Toninelli. “Le parole di Salvini su Venezia? Sono stufo delle sue stupidaggini. La sospensione del codice degli appalti? Provocazioni della Lega”. Forse non è la crisi di governo. Ma il governo è sicuramente in crisi.

Pietro Salvatori