di Franco Esposito
Macina record da vent’anni. Terence Hill, con la serie Don Matteo, è il vero domino di Rai1. Sette milioni gli spettatori per la prima delle dieci nuove puntate. Ognuna sarà dedicata a un comandamento. Il ventisette per cento di share è la media delle prime undici serie. All’esordio della dodicesima edizione, venerdì scorso, lo share ha toccato il 30,6%. La prima puntata di Don Matteo è andata in onda il 7 gennaio 2000. La fantastica Spoleto, dove è ambientata la serie, è diventata la capitale di un’Italia pacificata. Due ore in cui nessuno offende, dal vivo o via tastiera. Terence Hill nei panni di Don Matteo ormai è una sorta di apostolo. Un sacerdote rassicurante, Don Matteo, come lo furono il Don Camillo di Guareschi e Padre Brown, il prete investigatore. Gli antagonisti di oggi rispondono ai nomi di Jonathan Pryce, papa Bergoglio, e Anthony Hopkins, papa Ratzinger. Sono pubblicati da Netflix.
Laddove 500mila spettatori hanno assistito venerdì all’esordio della serie di Sorrentino, “The New Pope”, con Jules Law e John McIntosh. Don Matteo è un fantaprete. Il segreto della serie ne porta il nome è reperibile nel distacco dalla realtà. Il fantaprete di provincia usa una chiave molto semplice, l’astuzia. Non sono presenti, in assoluto, i vizi che circondano i parroci. Don Matteo è prete in possesso di virtù. La prerogativa è la calamita di un pubblico variegato. Le classi sociali più disparate anagraficamente a più livelli non si perdono una puntata della serie.
Il protagonista è un personaggio popolare che non spara sulla Croce Rossa, sul pianista e sui colleghi preti di paese. La serie è proprio come Don Matteo, in pratica cucita addosso a Terence Hill, l’esatto contrario lui del personaggio furbino praticante della violenza gentile e trascinante in coppia con Bud Spencer. Don Matteo è pienamente consapevole che la sottovalutazione è una trappola perfetta. Ad ascoltare il prete, la perpetua e il carabiniere non c’è uno che parli con proprietà l’italiano. Un altro trucco del mestiere: se vuoi capire, avvicinati. Gli autori hanno seguito il dettato di Camilleri nello strepitoso successo della serie del commissario Montalbano. I creatori di Don Matteo lasciano fuori realtà e verosimile.
Nevica in agosto, il traffico si apre come il Mar Rosso al passaggio della bicicletta del sacerdote. Quando viene inquadrata la scacchiera, la partita è finita da almeno mezzora. “Questa fiction rappresenta l’antidoto ai veleni dei tg che la precede”, sostiene Nino Frassica, il maresciallo dei carabinieri nella finzione televisiva. Don Matteo, di suo, rappresenta l’antitesi a quello che offrono le altre reti Rai. Alle voci sguaiate dei politici o dei vip che non dicono nulla. La serie è un’oasi atemporale. Due ore senza offese. Don Matteo interviene non tanto per risolvere i gialli che liquidano da sé sotto il sole onnipresente. Mettono a disposizione di chi guarda la morale della storia. Che non è quella che appare. La nuova serie parte da un falso: dieci film di cento minuti, ognuno col titolo di un comandamento, come sopra evidenziato. Una sorta di decalogo per i più piccini. La prima puntata si intitolava “Non avrai altro Dio all’infuori di me”.
In pratica, Terence Hill impegnato nell’esegesi di un progetto e neppure troppo convinto della sua proposta. “È più facile condannare che sapere”, come vero filo conduttore dell’episodio. Due tradimenti non perdonati, con tragiche conseguenze, sul rifiuto di accettare una propria responsabilità sulla base degli altrui errori. Cortina fumogena il resto. Gli accenni al social, la presenza di Rovazzi per catturare pubblico, la passione di Frassica a beneficio dei veterani della speranza. Polpa vera, arrosto puro, è reperibile nel messaggio subliminale che Terence Hill lancia in direzione dei naufraghi “spiaggiati sui divani”.
Personaggi stanchi di sparare sentenze, e poi? I naufraghi spiaggiati parimenti stanchi desiderosi di quella forma di amnistia, che altro non è se non la comprensione.
“Rimettete i vostri peccati perché qualcuno capirà che cosa vi ha spinto a commetterli”. Don Matteo abusa amabilmente dell’aggettivo “rassicurante”. Ma la sua, anche in questo caso, è una sicurezza falsa. Il dire di Terence Hill fornisce vaghe indicazioni per procurarsi la sicurezza; non è la chiave del paradiso. Il seguito è una prosecuzione nell’oscuro.
Il papa di riferimento di Don Matteo mette gli uomini alla prova, li danna e li ama tutti contemporaneamente. La fiction concepisce la cancellazione di sé come atto estremo per la salvezza universale. Don Matteo anche per quest piace, e non poco, anzi molto, agli italiani. Non solo quelli medi. I numeri confermano, dicono tutto. Sette milioni di telespettatori alla prima puntata della nuova serie non sono robetta. Ma un successone ampiamente certificato.