Come sta Genova, mentre la più grande assemblea che si ricordi si riunisce in un grande albergo per stabilire se la banca Carige sarà salvata o andrà in liquidazione, trascinandosi dietro il dramma di centinaia di migliaia di cittadini, correntisti, azionisti, dipendenti, aziende piccole, grandi e piccolissime? Mancano 48 ore e la città sembra non rendersi bene conto del trauma che potrebbe colpirla, un anno, un mese e 8 giorni dopo il giorno del crollo del ponte Morandi che l’ha spezzata in due, colpendola al cuore. Qui non si tratta di un colpo al cuore, ma piuttosto al portafoglio dei genovesi che è sempre stato importante, sopratutto in una città che le banche le ha fondate in Europa, come è venuto perfino a ricordare pochi giorni fa a Genova Michele di Kent, casa reale inglese, invitato dal sindaco Marco Bucci a dirimere una vecchia polemica tra i britannici e la vecchia Repubblica di Genova. Il sindaco voleva un po’ scherzosamente farsi pagare i diritti dagli inglesi per l’uso, in 327 anni, della bandiera genovese con la croce in campo bianco, inalberata gratis dalle flotte di Sua Maestà. Il principe è arrivato ossequioso e elegante, lui quarantatreesimo nella linea successoria al trono d’Inghilterra, ma non per questo meno investito del ruolo di ambasciatore in cotanta contesa. Appianata la controversia, con la quale il sindaco si è divertito a lungo, il riconoscimento della primogenitura bancaria è stata un po’ come il sale su una ferita, considerato che la banca, erede di quella fondata dai grandi mercati della storica Repubblica, sta attraversando un momento cruciale e decisivo. Genova, che aspetta questa assemblea nella quale dovrebbe essere approvato un piano di risanamento da 800 milioni di euro, da sottoscrivere sotto l’occhio vigile di Bce e di Banca d’Italia, in un regime di commissariamento nel quale Carige viaggia da quasi un anno, è indiscutibilmente una città in declino, piegata dalla tragedia del Morandi, cui ha reagito con il suo vecchio orgoglio, mettendosi a ricostruire rapidamente un ponte nuovo e non ancora in ripresa dopo quella tragedia. Hanno già aderito alla assemblea bancaria ben 17 mila azionisti, i grandi, i piccoli e i piccolissimi, il pulviscolo di un popolo risparmiatore, fedele e oggi piegato da una vicenda finanziaria inimmaginabile a questa latitudine di grande tradizione. L’assemblea si terrà in un grande albergo vicino all’aeroporto, che può contenere al massimo 3400 partecipanti. Non saranno certo 17 mila perché la maggioranza interverrà attraverso la delega, ma la folla sarà talmente imponente che l’organizzazione sta predisponendo maxischermi un po’ in tutta la città, perfino nella zona spaziosa del Porto antico, tra l’Acquario e il Bigo di Renzo Piano. Ci saranno ben 26 banchi per il ricevimento degli azionisti che andranno a votare con in tasca i loro titoli ridotti in poltiglia, ma con la paura di un crak che porterebbe Carige alla liquidazione, alla fine di un’epopea, in un giallo finanziario dove ci sono tutti i protagonisti possibili. A incominciare dall’uomo che ha innescato la tempesta, l’ex presidente-amministratore delegato, Giovanni Berneschi, già condannato a otto anni di galera e a finire conVittorio Malacalza, oggi l’azionista di maggioranza, che nel 2013-2014 salvò la banca immettendo nelle sue casse qualcosa come 430 milioni, ma che ora sta sospeso tra il ruolo appunto di salvatore votato a un sacrificio finale (accettare una ricapitalizzazione che ne riduce le azioni dal 27 al 5 per cento) e quello di chi spara il colpo di grazia. Se Malacalza arriverà in questa assemblea epocale e voterà contro, oppure se arriverà e si asterrà, i quattordici piani del grattacielo Carige, una torre che sbuca dagli storici carruggi, sprofonderanno all’inferno, trascinandosi dietro mezza città. La suspense di questa attesa snervante e fin troppo moderata nei toni è proprio il silenzio quasi tombale di Malacalza, della sua famiglia, che non si pronuncia, non annuncia nulla, non fa trapelare niente della decisione. In una sequenza più spaventata che agitata di interventi quello che spicca è proprio questo silenzio di Vittorio Malacalza e dei suoi due figli, Mattia e Davide. L’unico a scuoterli decisamente è stato uno dei pochi guru della città, Carlo Castellano, già dirigente Iri, vittima storica delle Br che lo azzopparono, facendogli portare fino ad oggi i segni delle pallottole, fondatore di Esaoteo Biomedicale, consigliere di Banca d’Italia, oggi anche anima e stratega di Erzelli, il villaggio tecnologico hig tech sulle alture di Sestri. Castellano ha tuonato, in una intervista a Il Secolo XIX su questo silenzio che lascia in sospeso il destino non solo degli azionisti, ma di "centinaia di migliaia di genovesi" a incominciare dai 4 mila dipendenti della banca, poi dai correntisti, da tutto il popolo che gravita intorno agli sportelli della banca-madre della Superba da secoli e secoli, in un rapporto che si spezzerebbe in un modo diverso, ma uguale a quello con il quale si è spezzato il ponte Morandi. Silenzio e dietro a questo una decisione difficile tra assentarsi, partecipare e non solo, ma anche combattere, eventualmente, altre battaglie legali sanguinose, come quelle già intraprese dai Malacalza, che hanno cambiato in pochi anni presidenti e amministratori delegati di Carige, come se fossero pedine al gioco degli scacchi, aspettando un piano di rilancio che non è mai arrivato come lo intendeva il patron. In un valzer di avvocati, professori, cause, citazioni, consulenze, la danza intorno alle spoglie della ex cassa di Risparmio di Genova e Imperia sta diventando macabra. Basta solo il 20 per cento degli azionisti per approvare il piano di risanamento e gli ottimisti sono sicuri che quel tetto sarà anche ampiamente superato, vista la massiccia richiesta di partecipazione e il si anticipato degli azionisti forti di minoranza, come il tycoon Gabriele Volpi col 9 per cento, il finanziere Raffaele Mincione con il 7, e poi l’ 1 per cento di Aldo Spinelli… Ma non potrebbe bastare se Malacalza arrivasse in assemblea con il peso del suo 27 per cento. E allora? Mentre il conto alla rovescia per l’inizio di uno spettacolo bancario che non ha precedenti nella storia, con una città appesa a un filo, davanti a quei maxischermi, Genova fa i conti con le sue incertezze. Queste incominciano proprio dagli affari della banca, dalla montagna di crediti deteriorati che sono stati ceduti ai gruppi specializzati in queste operazioni. Sono oltre tre miliardi di euro, in parte passati di mano con una percentuale di resa del 20 per cento alla banca, che è già sotto accusa. Se fossero stati ceduti al 50 per cento, la banca sarebbe salva, osservano i critici dell’operazione. Che sarà di questa massa fluttuante di debiti-buchi che riguardano fior fiore di personaggi, soprattutto nel mondo armatoriale genovese, come il gruppo Messina, debitore di 450 milioni? E questa è solo una partita, ce ne sono molte altre anche minime, secondarie, periferiche, che riguardano il tessuto commerciale, imprenditoriale della città. Una città, per esempio, che aspettando il nuovo ponte cerca di uscire da un pesante isolamento infrastrutturale, accentuato tragicamente dal crollo del 14 agosto 2018, ma che al momento della nuova inaugurazione del ponte bis tornerà al punto di partenza, non in avanti. Stralciata dall’alta velocità che qui non passa con le Frecce Rosse, collegata con Roma con i tempi degli anni Settanta via ferrovia e con voli che costano 400 euro nella tratta Cristoforo Colombo-Fiumicino, la ex Superba ha problemi di collegamento con Milano, un’ora e mezzo di tempo, se va bene, con Torino, quasi due ore, per non parlare delle tratte dirette a Bologna, Firenze. E’ una città isolata, che soffre perché nel frattempo la stanno scoprendo dopo decenni nei quali era conosciuta solo come la capitale dell’Iri con le grandi fabbriche parapubbliche e con quel gran porto dove i camalli non lavoravano se pioveva. Oggi arrivano tre milioni di passeggeri all’anno dalle navi da crociera in un porto privatizzato, ripartito dopo la botta del Morandi, che era il suo asse fondamentale di collegamento e i traffici rilanciati anche dalla nuova possibile via della Seta sono in salita, ma è difficile spostarsi anche all’interno delle sue mura. Chi investe a Genova, che sta decrescendo demograficamente, dove oramai ogni anno cala vistosamente il numero delle classi scolastiche (le prime elementari hanno appena perso nell’anno incominciato in questi giorni più di mille alunni), chi investe in una città dalla quale i millenials in gamba scappano appena possono, come ha fatto la generazione precedente? Ci sono zone intere del centro cittadino desertificate, come Piccapietra dove sorse negli anni Sessanta la Rinascente, chiusa un anno fa senza speranze, lasciando a casa non solo tutti i suoi dipendenti, ma annichilendo un pezzo di città che di notte chiude con le cancellate per impedire che diventi il quartiere dei barboni senza casa. Ed è il cuore di Genova, il suo centro. Ci sono molti cantieri che danno speranza, come quelli della ricopertura del fiume Bisagno, aperti da 15 anni e che sconvolgono il quartiere della Foce, dove suonava la scuola dei cantautori, Bindi, Tenco, Paoli e poi gli altri fino al mitico De Andrè. Ma quando finiranno? C’è il cantiere del Terzo Valico, la linea ferroviaria veloce che collegherà Genova a Milano, che i genovesi aspettano da 110 anni. Sarà pronta nel 2022, come tante altre opere traguardate per quell’anno fatidico. Il sindaco Bucci, che sta ricostruendo il ponte, combatte il declino con la sua ricetta della "città meravigliosa", riapre il festival del balletto nel parco di Nervi, progetta funivie dal porto alle alture dove ci sono i forti della Muraglia genovese, promette una monorotaia per sturare dal traffico la Valbisagno, vuole rivoluzionare il traffico cittadino con piste ciclabili e nuovi percorsi affidati all’appena incaricato superconsulente, Enrico Musso, professore di Trasporti all’Università, ex senatore di Berlusconi e ex candidato sindaco per due volte…… Il sindaco, ribattezzato in genovese "o scindaco ch’o cria" per il suo impeto manageriale, con cui scuote la macchina comunale e promette "vision" nuove e "mission" non più impossibili, cerca di accreditare una svolta nel clima zeneise, cambiato proprio dopo la tragedia del ponte. In questo clima ci vorrebbe proprio uno "sbraccio finanziario" forte, nel cuore della città, come era nei suoi tempi buoni la Carige. Che ora è appesa a un filo sottile, davanti agli occhi di 17 mila azionisti. In assemblea e con il naso all’insù davanti ai teleschermi di un film che nessuno avrebbe voluto vedere.

di FRANCO MANZITTI