È un po’ come andare ai Vespri della Protezione Civile quell’appuntamento delle 18 che ritma le giornate senza tempo al tempo del Coronavirus. Alle 18 in punto compare sui teleschermi, su tutti i teleschermi, l’immagine fissa della sala della Protezione Civile, pronta per la conferenza stampa nella quale si legge il bollettino della pandemia. Poi entrano i protagonisti: il capo del Dipartimento Angelo Borrelli nella sua immancabile divisa blu con le scritte, la camicia sbottonata, gli occhiali inforcati. Al suo fianco gli esperti, quasi sempre scienziati dell’ Istituto Superiore della Sanità, o il direttore generale Giorgio Brusaferro o il presidente Franco Locatelli, o altri ancora, tutti medici epidemiologici, immunologi, pediatri, uno per volta a fianco del capo. Poi sulla sinistra del palco la traduttrice della lingua dei segni, Stefania Dalla Pietra, sempre vestita di nero, oramai lei stessa segno indistinguibile di questa cerimonia diventata il format numero uno della Tv durante l’epidemia. L’Italia si ferma per assistere a questo rito raggelante, puntuale. C’è la conta dei malati, dei guariti, dei deceduti, ogni giorno tutto scandito al momento giusto, con un tempo giusto, come se ci fosse un appuntamento imprescindibile, una liturgia di aggiornamento, che, da una parte deve rassicurare e, dall’altra spaventa. E dà la misura dell’epidemia nella sua scarnificazione numerica essenziale e poi nella interpretazione metodica dei professori, facondi e nello stesso tempo precisi come chirurghi sul corpo vile dell’epidemia stessa. Incomincia il capo, Angelo Borrelli che legge i suoi numeri, sempre elencati nello stesso modo: prima i guariti, come a lenire la ferita della grande sofferenza collettiva, poi la cifra della progressione del contagio, con il numero che si alza inesorabile, ma di quanto? E la mente che corre a calcolare e a raffrontare. Poi la distinzione tra chi è in terapia intensiva di queste oramai decine di migliaia di sorvegliati, e di chi è a casa o in cura domiciliare o sotto "osservazione attiva". Poi, sempre preceduta dall’avverbio, umanamente proferito da Borrelli ,"purtroppo", il numero dei deceduti che è quello che fa scorrere il brivido, comunque, se è salito ancora o fa emettere un leggero respiro, se è calato. Subito dopo Borrelli legge i numeri dei trasferimenti delle terapie intensive dalle quali i malati sono stai trasportati altrove, in altri reparti meno assediati, e spesso la direzione di questi traslochi, che è difficile perfino immaginare, è verso città lontane, molto frequentemente in Germania, Norimberga, perfino Dresda. E allora chi ascolta immagina questi aerei della speranza, ma anche del dolore, che volano con questo carico di sofferenza, magari intubato, connesso ad apparecchi di sopravvivenza, verso luoghi tanto lontani. Cosa penserà, come soffrirà un malato che magari in coma farmacologico si sente trasportato via, così lontano in un altro luogo, diverso ma uguale, in una selva di letti, di monitor, di fili, circondato da medici e infermieri perfettamente anonimi e sconosciuti nello loro tute, visiere, mascherine... Ma Borrelli prima di finire fornisce ancora notizie utili sulle "forze in campo", di questo esercito di medici, infermieri, tecnici, trasportatori, che è diventato l’armata che combatte l’ epidemia nei mille ospedali dell’Italia, quelli dai nomi conosciuti oramai nella geografia della pandemia, ma anche quelli creati dal nulla. E ringrazia tutti, i volontari, soprattutto quelli della Protezione Civile e poi gli altri e ringrazia chi ha aiutato nei trasporti, chi ha fornito le mascherine, chi ha sbloccato pratiche e forniture. Non esiste un personaggio meno personaggio di Borrelli e la cerimonia delle 18 è perfetta sotto questo profilo. Il tono, il portamento, i gesti sono nudi e crudi, non c’è nessun cedimento a nulla, non c’è né un sorriso, né una espressione di rammarico o di soddisfazione, quel che siano i numeri. C’è solo un po’ di sobria pomposità nel presentare il professore che di volta in volta lo affianca e che farà lo speach dopo di lui. Borrelli si gira verso di lui, gli dà la parola e si tace: sembra quasi contento di non avere sprecato neppure una parola in più. Il più scenograficamente efficace dei suoi assistenti in questi Vespri delle 18 a reti unificate è il professor Franco Locatelli. Parla come una voce molto impostata, inizialmente quasi sgradevole, ma che poi diventa quasi perfetta nella sua efficacia esplicativa, chirurgica nello spiegare la battaglia alla pandemia, il significato dei mumeri appena letti, l’andamento delle curve epidemiologiche, il senso dei picchi e dei plateau, la strategia di quell’esercito di cui lui è uno dei comandanti. Locatelli non sbaglia un aggettivo, non incespica in una consonante, non sdrucciola in nessun passaggio, anche delicato della sua spiegazione. Quasi scandisce quando dice: "Dobbiamo-interrom-pere-la-ca-tenadel-con-ta-gio". E’ rassicurante, ma reale, non illusorio, non spaventa, se mai scarnifica il dato per spiegare meglio il suo significato. Non è il solo tenore di questo concerto perfetto, di questa liturgia che poi continua con domande dei giornalisti e le risposte di Borrelli, sempre parco e spesso, se non reticente o sfuggente, addirittura tranciante nel respingere la questione sottoposta. C’è spesso, al posto di Locatelli, Giorgio Brusaferro, il direttore dell’Istituto Superiore della Sanità, questa entità sovrastante la malattia, meno meccanico e ritmato nelle sue spiegazioni, ma forse un po’ più rassicurativo, più discorsivo. Bisogna riconoscere che le domande dei giornalisti sono quasi sempre efficaci, puntuali, anche dure, spinose, sollevano le questioni che vorrebbero tutti si sollevassero di fronte al maledetto virus, alla sua diffusione terrificante, a quei numeri in altalena angosciante, senza respiro. Le risposte più ampie dei professori e quelle laconiche di Borrelli sono sempre educate, anche davanti a sfide un po’ provocatorie, a quesiti che vengono dalla ridda infernale dei social, che sputano tutto il giorno dubbi, insinuazioni, fake news con una saliva corrosiva quasi più micidiale di quella sulla quale viaggia il maledetto Coronavirus. La cerimonia dei nostri Vespri, come l’ha battezzata Andrea Minuz in un bellissimo articolo sul "Foglio" a proposito della "Tv ingoiata dal virus", non dura mai più di quei venti-trenta minuti, quasi letali nella loro definitezza. Finisce come è incominciata, sullo sfondo di quella lunga scrivania della protezione Civile. Borrelli, il professore di turno e la signora dei segni, si alzano e sfilano via, lasciando questa scia di numeri e sensazioni sui quali ora tutte le tv, i telegiornali, i talk show si accaniranno in analisi minuziose, scientifiche, ma anche viscerali, istintive, in una danza di cifre che occuperà tutto, fino alla puntata del giorno successivo. Quei numeri e le frasi più importanti pronunciate nella liturgia compaiono, dal momento in cui sono stati profferiti, nei sotto pancia dello schermo, in una sorta di bombardamento ripetitivo: "Borrelli: contagio in calo". "Locatelli: siamo verso il picco", eccetera eccetera, con una insistenza che può sembrare quasi angosciosa, perché il numero sgradito, per esempio "Oggi 830 deceduti", ti viene ripetuto a macchina, come se non si volesse che tu lo dimentichi. Quando il collegamento stacca è come se fosse in qualche modo finita la giornata, quel che si doveva sapere è uscito da quei numeri, dalla loro lettura, dalle interpretazioni degli esperti, dal breve botta e risposta con i giornalisti. Quello è lo stato della malattia. Poi ricamateci e lavorateci sopra, tanto domani Borrelli vi riinchioda lì di nuovo. Stessa ora, stesso ritmo, stessi toni, stessa attesa.

FRANCO MANZITTI