Sono tanti i segnali raccolti in questi mesi sulle falsità di Pechino: bugie sull’origine del virus e menzogne sul numero dei contagi. Nel corso delle ultime settimane abbiamo sempre ribadito la necessità di guardare con occhio critico e scettico ciò che la propaganda del Partito Comunista Cinese continuava a diffondere in Europa e in Italia, sia sul coronavirus che sugli aiuti al mondo, anche con l’avallo delle nostre istituzioni che hanno osannato politiche di cooperazione nel nome della "Via della Seta".

Il 18 maggio Bloomberg ha reso noto che circa 108 milioni di persone in una provincia nord-orientale della Cina sono tornate in isolamento dopo l’apparizione di un nuovo focolaio di coronavirus. Dopo la riapertura in corso in tutta la Cina, le città della provincia di Jilin hanno bloccato treni e autobus, chiuso le scuole e messo in quarantena decine di migliaia di persone. Le misure hanno sorpreso gli abitanti e i media indipendenti che ritenevano che il peggio fosse passato, ritrovandosi, invece, nuovamente nella gabbia di regime.

Anche a Shenyang, nella vicina provincia di Liaoning, sono state imposte nuove restrizioni. "Le persone sono tornate ad esser più caute", dice un impiegato di una società commerciale di Shenyang. "I bambini che giocano fuori indossano di nuovo le mascherine" e gli operatori sanitari indossano indumenti protettivi. "È frustrante perché non si sa quando finirà". Il focolaio a Jinlin è di 34 infezioni e ci risulta che non stia crescendo altrettanto rapidamente come accaduto a Wuhan. Il problema per i giornalisti che vogliono approfondire cosa accade in Cina è legato alla conoscenza di tali fenomeni: semplicemente non sappiamo cosa accade e ciò che riusciamo a raccogliere sono solo alcune briciole che sfuggono alla macchina totalitaria della propaganda di Pechino.

Pechino afferma che da quando la pandemia di coronavirus è scoppiata a fine 2019, ci sono stati solo 82.919 casi confermati e 4.633 morti nella Cina continentale. Tali numeri potrebbero essere approssimativi e in tal caso un resoconto dettagliato sarebbe uno strumento importante per conoscere la diffusione del virus. Ma è anche possibile che i numeri presentati al mondo siano notevolmente minimizzati rispetto ai dati in possesso di Pechino. L’opacità e la sfiducia degli stranieri nel sistema gestito dal Partito Comunista Cinese rendono difficile ogni valutazione, e maggiori informazioni sui dati del coronavirus di cui si avvale direttamente il governo cinese è prezioso per altri governi.

Un database di contagi e decessi per coronavirus della National University of Defense Technology, pervenuto a Foreign Policy, offre informazioni sul modo in cui Pechino ha raccolto i dati del coronavirus tra la popolazione. La fonte della fuga, riporta Foreign Policy, ha affermato che i dati provenivano dall’università che aveva avviato un sistema di tracciabilità di dati per il coronavirus: la versione on-line corrisponde alle informazioni trapelate, ma è molto meno dettagliata. Il database mostra solo la mappa dei casi, non i dati distinti.

Il database, sebbene contenga incoerenze, e benché non sia sufficientemente completo per contraddire i numeri ufficiali di Pechino, rappresenta l’insieme di dati più esteso sui casi di coronavirus in Cina. Rappresenta una preziosa fonte di informazioni per epidemiologi ed esperti di sanità pubblica in tutto il mondo, ed è un set di dati che quasi certamente Pechino non ha condiviso con il governo o con medici statunitensi. Benché incompleti dunque, i dati sono incredibilmente preziosi: ci sono più di 640mila aggiornamenti che coprono almeno 230 città e, in altre parole, 640mila righe che mostrano il numero di casi in una posizione specifica al momento della raccolta dei dati. Ogni aggiornamento include latitudine, longitudine e numero "confermato" di casi nel luogo esatto, in date che vanno da inizio febbraio a fine aprile.

La risposta della comunità internazionale, anche se con notevole ritardo, c’è stata. La richiesta ufficiale è quella di un’inchiesta indipendente che faccia chiarezza una volta per tutte sulla pandemia di coronavirus. E in particolare, in maniera assai più che velata, sulle possibili e pesanti responsabilità della Cina. È questo ciò che chiedono 100 Paesi all’Organizzazione Mondiale della Sanità, tra i banchi dell’Assemblea, suo organo legislativo. Non più uno slogan propagandistico, ma una risoluzione formale che è stata presentata all’Assemblea e che, a prescindere dall’esito delle indagini, pone Pechino in una posizione di forte imbarazzo nei confronti della comunità internazionale. Responsabilità che non dovremmo dimenticare per non ritornare ad errare.

DOMENICO LETIZIA