La foto del campanile di Amatrice, svettante nel nulla a macerie sgombrate, ha qualcosa di più spaventoso delle immagini di quattro anni fa, 24 agosto 2016, quando la luce dell’alba lo sorprese superstite fra i cumuli della distruzione. Soltanto cinque mesi più tardi, Luigi Di Maio elesse il campanile a emblema dei ritardi del governo – non ancora il suo – e le promesse del presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, moneta patacca buona a prendere in giro le persone. Non lo si scrive per segnalare un’eccezionalità del piccolo leader a cinque stelle: anzi, è uno sconsiderato costume delle opposizioni ancorarsi ai terremoti, purtroppo così frequenti e così devastanti, per dimostrare l’incompetenza e l’accidia dei nemici di maggioranza. Talvolta, per calare sul tavolo una briscola pesante, si insinuano o più volentieri si denunciano loschi affari sulla pelle del popolo, senza l’incomodo di allegare un indizio.

Trascorso un anno dal collasso di Amatrice, Beppe Grillo impegnò quella palestra di psichedelie che è il suo blog (una volta qui era tutta Bibbiano) per giocarsela come al solito da Cavaliere Mascherato, in sella al destriero bianco contro le jene che speculano sulla disperazione della gente: "Sul business dei disastri ride solo il Pd" (anni fa Ivano Fossati cantava delle verità dette dal lato brutto a cui non si rimedia, ma in questi tempi senza verità - straripanti di invettive a caso, di parole senza significato e dunque senza conseguenze, né per chi le pronuncia né per chi le riceve - si rimedia a tutto). Se la moneta patacca è dei governi, i veri patacones sono sempre delle opposizioni. Ed è denaro di cartapesta che gli torna sempre in tasca.

La commemorazione di stamattina, sul campo sportivo di Amatrice, è stata disertata dai parenti delle vittime e la diserzione resa manifesta dalle sedie vuote (è la seconda volta in poche settimane: la prima a Genova per l’inaugurazione del ponte sul Polcevera). Poi una donna sfiancata – perduta prima la casa, quindi il marito suicida – è andata faccia a faccia con Giuseppe Conte a dirgli ora basta, ora basta promesse. La leggenda del pifferaio magico, citata spesso a vanvera, trova ormai applicazione quotidiana: quasi senza accorgersene, i cinque stelle si ritrovano issati sul patibolo da loro eretto per rinfocolare, sul collo degli avversari, la sete di vendetta di chi è all’inesausta ricerca di un colpevole, fosse pure il colpevole di un terremoto.

Poi, naturalmente, il lassismo c’è, i ritardi ci sono ed evidenti, c’è anche qualche ruberia (poche, veramente), ma una politica seria, di opposizione o di governo, alla ricerca di un senso e non di un consenso, peraltro effimero, dovrebbe dire le cose come stanno: che ricostruire, ad Amatrice come all’Aquila, sarà un lavoro molto lungo, ricostruire tutto sarà impossibile, che i terremoti continueranno a colpirci perché l’Italia è quasi per intero zona sismica, che mettere in sicurezza anche soltanto l’Appennino, coi suoi mille e mille borghi medievali, sarà impresa titanica e infinita, e magari irrealizzabile, che il cilindro del mago è vuoto e lo è sempre stato, che in democrazia la politica può fare un po’ peggio o un po’ meglio ma non esistono, se non nelle favolette, governi di tenebra e opposizioni luminose. Tutto il resto è populismo, e viene da lontano. Ps. Ogni popolo ha il populismo che si merita.

MATTIA FELTRI