Tutti guardano con preoccupazione ai cinesi, come se fossero gli unici stranieri ad aver messo gli occhi e le mani sui porti italiani: non è così. Nell’arco di poche settimane investitori tedeschi e ungheresi hanno siglato accordi che garantiranno loro uno sbocco sicuro nel porto più strategico della penisola: Trieste. La questione, particolarmente sensibile per gli interessi geopolitici in gioco, non è tuttavia etnica o ideologica, come spesso viene raccontata, ma è pura politica economica. Il colosso tedesco di Amburgo Hamburger Hafen und Logistik Ag (Hhla) ha concluso l’intesa per entrare nella Piattaforma Logistica del porto giuliano, una infrastruttura nata sulla carta nei primi anni 2000 e appena conclusa, considerata tra le più grandi opere marittime del Paese negli ultimi dieci anni. Hhla non ci entrerà in punta di piedi: d’accordo con i soci Icop, l’interporto di Bologna e Francesco Parisi Spa, a fine anno sottoscriverà un aumento di capitale esclusivo diventando primo azionista della Piattaforma, con il 50,01% del terminal multifunzionale.

L’evento è di quelli che conta, tant’è che oggi alla cerimonia per la firma e le foto di rito accanto al ceo di Hhla Angela Tizrath c’è il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli. L’obiettivo è fare del porto giuliano lo snodo per l’integrazione delle reti logistiche e portuali tra porti del Nord e Sud Europa. "Questa partecipazione costituisce un significativo ampliamento della nostra attuale rete portuale e intermodale", ha detto l’ad Tizrath. Senza, però, mettere in secondo piano lo sviluppo nazionale: "Intendiamo al tempo stesso rafforzare ulteriormente i nostri terminal di Amburgo attraverso investimenti in impianti e tecnologie. Siamo un’azienda tedesca ma ci sentiamo a casa in Europa". La società è attiva in quattro terminal del porto di Amburgo, terzo scalo marittimo in Europa per traffici dopo Rotterdam e Anversa, quotata in borsa ma sotto controllo pubblico, con il 68,4% nelle mani della municipalità e il resto flottante. Con 6300 dipendenti e movimentazioni per 7,5 milioni di Teu (unità di misura dei container), genera un fatturato annuo per 1,3 miliardi di euro.

Numeri che fanno arrossire le imprese della logistica italiana mettendole di fronte al peccato originale perpetrato negli ultimi tre decenni: l’Italia è l’unico Paese europeo a non avere un campione nazionale che, sostenuto direttamente o indirettamente dallo Stato, si faccia promotore degli interessi nazionali. Su 90mila imprese totali, l′85% ha meno di cinque milioni di fatturato e meno di 10 addetti. I tedeschi invece il loro champion ce l’hanno, e ha subito fiutato l’affare della piattaforma nuova di zecca: sorge tra l’ex Sidemar e l’ex Italsider e si sviluppa su 12 ettari ma, recuperando varie aree anche marine e con l’acquisto successivo dell’adiacente Scalo Legnami ha raddoppiato la superficie arrivando a un terminal di complessivi 24 ettari, con doppio attracco e raccordo ferroviario per una concessione di durata trentennale. L’investimento da 150 milioni di euro si sposa con la riconversione dell’ex area della Ferriera di Servola: dove c’era l’altoforno, spento nei mesi scorsi dopo 123 anni di attività, dovrà sorgere un polo logistico integrato, grazie anche allo sviluppo di un raccordo ferroviario che permetterà di accogliere treni da 750 metri.

Angela Merkel (Depositphotos)

Quella di Amburgo è una presenza ingombrante in un porto come Trieste, e il fatto che dietro ci sia una società pubblica promette di alimentare polemiche. "Ogni volta dobbiamo difenderci dalle presunte incursioni straniere, ieri erano i cinesi oggi a quanto pare sono i tedeschi. La verità è che non regaliamo niente a nessuno, ma c’è una gran confusione e poca conoscenza di come funzionano i porti italiani", ci dice Zeno D’Agostino, presidente dell’autorità portuale. "Trieste è uno dei pochi porti ad attrarre investimenti stranieri perché negli ultimi anni l’abbiamo reso efficiente, sul modello del Nord Europa. Come Autorità di Sistema portuale rappresentiamo lo Stato italiano, per cui possono venire i tedeschi o i cinesi, gli ungheresi o i turchi, noi siamo qui a fare tutte le verifiche sui piani industriali e i controlli sulle garanzie previste dalla legge. E se qualcosa non va, siamo sempre pronti a revocare la concessione".

Oggi "il grande tema non è tanto chi gestisce le infrastrutture, ma le regole con cui vengono gestite", dice Ivano Russo, direttore generale di Confetra, la confederazione delle imprese della logistica italiana. Anche perché nel mondo sono solo una trentina i big player in grado di avvicinarsi, per mezzi, know-how e potenza economica, a infrastrutture di queste dimensioni. Molti di essi, tuttavia, hanno alle spalle i rispettivi Stati di provenienza. Per dire: DHL nasce 25 anni fa dalle Poste tedesche, DB dalle Ferrovie tedesche; e poi Hapag Lloyd, Eurokai Contship, Lufthansa Cargo. Gli altri Paesi non sono da meno: la Francia ha CMA CGM, uno dei quattro colossi del mare, dopo Maersk che fa il 50% del Pil danese, mentre la svizzera Hupac è accompagnata passo passo dal governo federale. Per non parlare delle grandi imprese di Stato cinesi come Cosco, CCCC, Huawei per il 5G. O delle big tech americane, che la Casa Bianca non esita a difendere sventolando la minaccia dei dazi ogniqualvolta si parla di tasse europee. "Tutto il mondo ha capito che il potere economico in un mondo globale è direttamente proporzionale alla politica logistica che vuoi perseguire".

A Trieste sono già presenti turchi, svizzeri e danesi, e l’attenzione tedesca quindi non sorprende. D’altronde dal porto passa l’oleodotto che rifornisce di petrolio Austria e Repubblica Ceca ma soprattutto la ricca Baviera e il Baden-Wuerttemberg. A breve poi, dopo due anni di colloqui, l’autorità portuale siglerà un accordo con Duisburg, il principale crocevia per i traffici su ferro da e per la Cina, e sede del più grande porto fluviale d’Europa, per l’ingresso nel capitale dell’interporto giuliano. Anche qui, c’è lo Stato a garantire gli interessi italiani, come AdSp e la Regione. L’ingresso di Hhla a Trieste segue gli investimenti già consolidati a Odessa, in Ucraina, e a Tallin, in Estonia. Fa parte di una strategia precisa dei grandi player del Northern Range che mirano al mercato asiatico e al traffico via canale di Suez: un tempo preferivano Capodistria, oggi guardano al porto italiano con rinnovato interesse, anche per le potenzialità connesse alla rete ferroviaria interna di 70 km - eredità asburgica - ben integrata nella rete nazionale ed europea.

"Il terminal giuliano ci offre la possibilità di intercettare nuovi flussi di merci in mutamento e di partecipare attivamente alla loro evoluzione", ha spiegato l’ad di Hhla Tizrath. Prima di Amburgo si era però mossa Budapest: a giugno è stato siglato l’accordo per un investimento da 100 milioni di euro da parte della società ungherese Adria Port - anch’essa pubblica, guarda caso - per lo sviluppo di un nuovo terminal multifunzionale che sorgerà sui 320mila metri quadrati dell’ex impianto petrolifero dell’Aquila. L’accordo mira a rafforzare la presenza dello scalo giuliano nei traffici con l’Europa orientale, dando al contempo a Budapest uno sbocco diretto sul mare. "La presenza straniera nei nostri porti non per forza un campanello d’allarme", spiega il dg di Confetra. Di per sé, il puro transito di merci produce valore relativo, per questo "va accompagnato da partnership commerciali e industriali come sta facendo negli ultimi anni Trieste", continua Russo. "Altrimenti diventiamo una infrastruttura-commodity al servizio degli utili altrui".

Si rischia cioè una sorta di trickle-down effect, l’effetto sgocciolamento generalmente associato alle politiche di Ronald Reagan, per cui ingenti traffici globali lasciano benefici limitati nell’economia locale. Un esempio arriva proprio dall’Oleodotto transalpino che ogni anno, partendo dal porto di Trieste, fornisce 41 milioni di tonnellate di petrolio a otto raffinerie di tre Stati (Austria, Repubblica Ceca e Germania) lungo un tracciato di 750 chilometri. Secondo il terminalista petrolifero TAL-SIOT, l’oleodotto genera un fatturato di 85 milioni per un impatto economico complessivo di 280 milioni di euro, indotto incluso, sul territorio regionale. È azzardato sostenere che sia abbastanza, a fronte di un valore tra i 12 e i 20 miliardi di euro generato dal greggio in transito sotto al naso italiano, senza che nemmeno un euro di Iva venga versato nelle casse statali, e a totale giovamento di quelle dei paesi di raffinazione.

L’Italia sta perciò pagando anni di negligenza verso il comparto logistico che ne hanno fatto l’unico Paese del G7 senza attori in grado di presidiare gli interessi nazionali sui mercati globali: "Oggi - aggiunge D’Agostino - tutti Paesi intelligenti hanno capito l’equazione ‘reti e trasporti=interessi geopolitici e geoeconomici’. Per questo sostengono le loro imprese, direttamente con la partecipazione pubblica o indirettamente supportando il mondo bancario che a sua volta le supporta". Tradotto: la politica estera di un Paese oggi si fa anche attraverso l’influenza che queste multinazionali sono capaci di esercitare. Lo Stato tedesco opera sui mercati tutelando i suoi interessi senza esitazione. E l’Italia? "Qui siamo rimasti indietro di decenni - conclude il presidente del porto di Trieste -grazie a una mentalità dominante secondo la quale lo Stato deve restare il più lontano possibile dal mercato". Quella stessa mentalità che per assurdo innesca nella classe dirigente italiana sempre la solita reazione scomposta al primo investitore che si affaccia dall’oriente: "Mamma... li cinesi!". O li tedeschi, tanto fa lo stesso.