C’è molto interesse scientifico per l’intelligenza umana, forse perché si è radicato da tempo un semplice - seppure impreciso - valore che la definirebbe: il QI, il quoziente intellettivo. Avere il QI già lì, pronto all’uso, semplifica molto il lavoro dei ricercatori, anche se dopo tanti anni - risale al 1905 - nessuno è veramente sicuro di cosa misuri esattamente. Comunque, basta metterlo in relazione con qualche altro fenomeno per tirare fuori un risultato suggestivo. Un esempio è l’associazione dei dati in un influente studio di psicologia evolutiva apparso nel 2016 sul British Journal of Psychology che dimostra come le persone particolarmente intelligenti "traggano meno soddisfazione dalla vita quando socializzano di più con gli altri". Per dire, i geni preferiscono essere lasciati in pace… L'intelligentone scorbutico che preferisce la solitudine dei propri pensieri alla compagnia è un antichissimo stereotipo, rappresentato per esempio dal detective Sherlock Holmes, che tollera solo la presenza dell'ammiratore Watson. I ricercatori Norman Li e Satoshi Kanazawa hanno analizzato i dati di un’indagine condotta su 15.197 soggetti per quantificare la loro soddisfazione di vita, intelligenza e salute: trovando che, per la maggior parte, l’essere immersi in una popolazione troppo densa "tipicamente" causa infelicità, mentre socializzare con gli amici genera felicità - a meno che non si tratti di soggetti molto intelligenti, la cui insoddisfazione invece cresce quando stanno troppo con gli amici. Li e Kanazawa hanno ipotizzato che il fenomeno possa dipendere dall’evoluzione del cervello umano, spiegando il risultato con la loro "teoria della savana", secondo cui la soddisfazione di vita non viene determinata solo dagli eventi del presente ma è anche influenzata da come i nostri lontanissimi antenati del Pleistocene - abitanti delle sterminate, e vuote, savane africane - avrebbero reagito alle nuove circostanze. I nostri cervelli, come gli altri organi del corpo umano, sarebbero - ipotizzano - tuttora meglio adattati alle condizioni di vita della lunghissima preistoria, molte centinaia di migliaia di anni caratterizzati dalla bassa densità di popolazione e dalla forzata appartenenza a ristretti gruppi di intimi. Il risultato sarebbe che i nostri cervelli farebbero fatica a comprendere e a reagire alle situazioni nuove che appartengono invece al mondo moderno. Si suppone che l’intelligenza si sia evoluta nel tempo come meccanismo per permettere agli esseri umani di affrontare sfide poco familiari - le circostanze che in passato non facevano parte della vita "normale". Per gli antenati lontani, contatti frequenti con amici e alleati erano essenziali per la sopravvivenza. Secondo i ricercatori, il possesso di un’intelligenza "alta" permetteva di risolvere i problemi senza l’aiuto degli altri, il che avrebbe sminuito l’importanza dell’amicizia - dei rapporti umani in genere - per la popolazione minoritaria degli iper-intelligenti.

JAMES HANSEN