Nel golfo delle sirene, dove tra il dire e il fare c’è sempre di mezzo il mare, abbiamo come delle scadenze sentimentali, anche nel pallone. Arriva un ragazzo col sorriso di ragazzo e gli diamo il cuore. Quando arrivò il ragazzo con i riccioli neri e la faccia impudente dei nostri scugnizzi, e fu Dieguito, allora fu il massimo. Negli anni Sessanta, i favolosi Sessanta fra i Beatles e il Vietnam, e i 400mila di Woodstock, quando nascevano i Pooh e si andava sulla luna, in quegli anni là, con la partita di pallone di Rita Pavone, sui monti di Agerola, domestico ritiro precampionato del Napoli del petisso Pesaola, arrivò Jarbas Faustinho Canè di anni giovanili imprecisati.

Sparava palloni alle stelle che ricadevano giù ad Amalfi. Un cannoniere spaziale, ma soprattutto un ragazzo brasiliano spaesato, non solo nei tiri. Gli demmo il cuore perché ne aveva bisogno. Non sono più tempi romantici in questi tempi del pallone matematico, ma il cuore del golfo è uno zingaro e va. Ed ecco che da Lilla per 70 milioni di euro, il maggior costo dell’epoca De Laurentiis, arriva Victor Osimhen, nigeriano di ventidue anni, con un faccino da ragazzo del Vasto o della Sanità, gambe da fenicottero e sorriso di bravo guaglione, e, mentre se ne va in gol col vento nelle caviglie, ci ha già preso gli occhi e il cuore.

Roberto La Paz, uruguayano di colore, primo colored nel campionato italiano, venne al Napoli negli anni Quaranta e d’inverno giocava con i guanti, faceva collezione di sveglie e, chiuso a chiave in un appartamento della Palazzina Rossa del Napoli al Vomero, si calava con una corda dalla finestra in strada per andare a caccia di ragazze, ora La Paz, un matto che era inutile legare, non c’entra molto con Osimhen, c’entra soltanto perché anche La Paz aveva gambe lunghe e movenze ballerine quando giocava da centravanti ballerino. Dribblava anche se stesso. La differenza è che La Paz, dopo avere dribblato mezza squadra avversaria buttava la palla fuori, perché il suo piacere finiva con l’ultimo dribbling, mentre Victor Osimhen di Lagos, Nigeria, la palla la butta dentro, non si fa incantare da se stesso e incanta i portieri.

I gol sono una cosa importante, ma è il modo di andare in gol di Osimhen che ruba gli occhi e ha conquistato il cuore dei tifosi pazzarielli del golfo (gli intellettuali aspettano le difficoltà tattiche). Osimhen è caricato a molla. Gli arriva il pallone e già sa dove andare. Questo è niente. È che ci va danzando, non proprio dondolandosi ma danzando, e questo piace molto. Va in gol con la grazia di una ballerina del San Carlo. Lungo e robusto, ma leggero. È Mercurio che corre, è Apollo che segna. Senza dubbio ci confonde questo bisogno di amare che abbiamo a Napoli. Nel pallone, perché altri campi offrono poco e niente. Savoldi aveva una sua grazia volatile quando segnava di testa. E Josè Altafini era un birbaccione innamorato che non aveva bisogno d’amore, ne aveva tanto dalla moglie del suo migliore amico, ma ci piaceva tanto, José, pronto alla burla.

Attila Sallustro era stato un divo, biondo e con gli occhi azzurri, e i divi si amano, succede inevitabilmente. Vinicio è stato un grande amore, i suoi gol erano tuoni, più che conquistarti il cuore te lo mandavano in frantumi. Un bronzo di Belo Horizonte, un brasiliano bianco che esprime ancora oggi una forza tedesca mentre, salutato da tutti, se ne va a passeggio per Napoli con un bastoncino d’appoggio e le anche rifatte al titanio. Questo Victor Osimhen è un’altra cosa. È una cosa nuova. La grazia e la forza. È il discobolo di Mirone che gioca a calcio. E con quella faccia bambina e i capelli spruzzati di biondo dal parrucchiere s’è preso l’amore dei tifosi del golfo. Corre sull’erba come qualcuno camminava sulle acque. Con la stessa sicura leggerezza. Tratta il pallone da artista.

Fabio Mandarini sul "Corriere dello sport" ne ha svelato il segreto. Victor Osimhen calza il 46,5. Ogni piede è una spatola. Dipinge il pallone tridimensionale. Quando Obafemi Martins, anch’egli di Lagos, giunse all’Inter, ed era il 2001, aveva 17 anni, correva i cento metri in meno di undici ùsecondi e fece ventotto capriole all’indietro per i 28 gol che mise a segno. Era piccolino (1,70) e simpatico, saltava come un grillo. Prima di Osimhen è il nigeriano che più viene in mente. Senza far torto a Taribo West che giocò nell’Inter (1997) e nel Milan e non si seppe mai quanti anni avesse, la moglie Atinuke lo denunciò per matrimonio non consumato e lui si fece pastore pentacostale fondando una chiesa alla periferia di Milano. Sunday Oliseh costò 21 miliardi di lire quando giunse alla Juventus nel 1999 e non segnò neanche un gol.

All’Inter (1996), Nwankwo Kanu era alto quasi due metri, 1,97, aveva vent’anni, una faccia da leone, le treccine e un cuore complicato, Massimo Moratti gli pagò la sostituzione della valvola aortica e lui se ne andò a giocare in Inghilterra. Oggi ha 44 anni e sta bene e con la Kanu Heart Foundation ha fatto operare più di cinquecento malati di cuore. Erano tempi esotici, la nazionale nigeriana vinse le Olimpiadi del 1996 e, naturalmente, l’Italia del pallone allora ricca e famosa si prese un bel po’ di quei campioni, gli aquilotti verdi che avevano stupito il mondo, ma furono stelle di passaggio sui nostri campi. Martins spiegò che nel campionato italiano non c’era allegria, era troppo duro, e perciò i nigeriani ci si trovavano male.

Ma i tempi sono cambiati e, oggi, i calciatori nigeriani fanno i professionisti senza storcere il naso, continuano ad emigrare in Olanda e Germania, le loro terre promesse del pallone, cinque di loro giocano in Premier, Kelechi Iheanacho del Leicester e Alex Iwobi dell’Everton i più noti, comparse importanti. Due nigeriani fanno eccezione, puntano in alto e non vogliono fare da comparse. Uno è Emmanuel Dennis, 23 anni, 1,74, centravanti tascabile che sta bruciando le tappe nel Club Bruges e ha segnato una "doppietta" al Real Madrid in Champions.

L’altro è Victor Osimhen che l’abbiamo nel golfo e ce lo godiamo. Gattuso sta cercando la soluzione per fare giocare insieme Mertens e Osimhen col belga dietro al nigeriano nel 4-2-3-1 oppure all’ala destra nel tridente del 4-3-3 completato da Lorenzuccio Insigne che migliora ogni volta che gioca in nazionale. Victor Osimhen è apparso per la prima volta al San Paolo alle ore 18 di venerdì 11 settembre nell’amichevole col Pescara in un stadio deserto per il Covid-19 e ammollato da una calura africana. Nell’assenza totale di applausi, cori, bandiere e mama-mama-mama, Osimhen che aveva ballato e segnato sei gol nelle amichevoli leggere a Castel di Sangro s’è inceppato, un po’ perché nel primo tempo Gattuso gli metteva Politano e Lozano sugli esterni che non passano la palla neanche a Belen Rodriguez e perché nella ripresa, con Mertens e Insigne, è rimasto in campo una ventina di minuti prima che il Napoli cominciasse a far gol, protagonista Andrea Petagna, imponente bucaniere triestino di un metro e 90, centravanti-ombra del nuovo Napoli. Gli intellettuali del pallone (parlano direttamente con Pitagora per i moduli di gioco e studiano gli algoritmi per giocare meglio) ne hanno approfittato per sentenziare che, contro la prima difesa seria, la nobile difesa del nobile Pescara che veleggia in serie B (il poderoso Gennaro Scognamiglio, grano duro di Gragnano, e Mirko Drudi cesenate al centro), Osimhen è rimasto a secco e così sarà nella giungla delle difese del campionato fra gladiatori che alzano il gomito, spingono, pressano e agli attaccanti fanno sentire il fiato sul collo.

È stato il panico fra i pazzarielli sentimentali del golfo che già pensavano a Osimhen come all’amico geniale e unica prospettiva di allegria in una stagione in cui non sappiamo dove il Napoli andrà a parare. Ma alle 13,49 di domenica 20 settembre, prima giornata di campionato, Victor Osimhen si alza dalla panchina, a Parma, e trasforma seduta stante il Napoli che stava giocando a palla prigioniera contro gli emiliani, palla a te, palla a me, palla a tutti e neanche un tiro in porta. L’incantesimo di una apparizione. Il fenicottero biondo, che ci fa abbracciare il mondo, è una scossa, un brivido di velocità, una bacchetta magica. Corre da centometrista, dà la profondità, si propone, scambia, trascina. Un vento d’allegria sveglia il Napoli. A Parma, con Osimhen in campo, il Napoli vince. Victor è già un portafortuna. Mertens lo incorona: è un ragazzo che fa la differenza. Gattuso non si esime: è un valore aggiunto. Victor vittoria. Nel golfo del pallone abbiamo un altro ragazzo da amare, Victor Osimhen, il ballerino magico.

Mimmo Carratelli