di Alessandro de Angelis

In parecchi si chiedono, abituati alla grammatica istituzionale d’antan, se Conte abbia intenzione di salire al Colle per rassegnare le dimissioni, magari dopo il discorso in Aula di domani, evitando il voto. Per poi ottenere un reincarico e a quel punto riaprire il gioco. Con Renzi, che ha messo agli atti una sua astensione, e dunque tenendolo aperto a sua volta, o magari senza Renzi perché, una volta sancita una discontinuità, a quel punto anche l’operazione responsabili può essere agevolata da una parvenza di dignità politica. Nel senso che un conto è correre in soccorso del governo in nome della cadrega un conto è salvare la faccia facendo finta che è in atto un’operazione politica: un nuovo programma, un nuovo governo, eccetera eccetera.

In parecchi, dentro il Pd, questa cosa la sussurrano sotto i fragori della linea ufficiale e anche dentro in Cinque stelle dove ormai ogni testa è un tribunale, perché, dicono, “è complicato governare con una maggioranza esigua”. La risposta, all’amletico quesito, è un brusco “no”. Conte non ha alcuna intenzione di dimettersi né prima né dopo il voto, sia della Camera sia del Senato. E non ha neanche tutta questa intenzione di salire al Colle a riferire o spiegare come andare avanti se non sarà chiamato a rapporto. L’importante è prendere un voto in più, punto, anche se a palazzo Madama martedì non si dovesse raggiungere, come probabile, la famosa soglia 161, ovvero la maggioranza assoluta. Il ragionamento del presidente parte da un assunto, il “mai più con Renzi”, accompagnato dall’eccitazione della sfida e da un mal celato rancore personale: “Gli ho offerto di tutto – va ripetendo - l’ho anche cercato due volte e non mi ha risposto, l’ho cercato anche una terza col numero oscurato di palazzo Chigi, niente”. E arriva all’arrocco come strategia, il più classico tirare a campare: incasso il voto alla Camera, sulla base di quello e in un clima di pressione ambientale vado al Senato, prendo un voto in più, comunque esso sia, anche quota 154 con i senatori a vita, e quel punto ho salvato la ghirba dimostrando che non c’è un’altra maggioranza possibile.

Il copione è già scritto: molti tireranno in ballo Mattarella, chiedendo al capo dello Stato un giudizio e un intervento di fronte a una maggioranza che maggioranza non è, fragile, risicata, politicamente inadeguata in questo contesto che richiederebbe ben altra forza e coesione. E sarà un po’ come ululare alla luna perché il capo dello Stato, questo capo dello Stato, poco può fare davanti a un presidente in carica che non ha intenzione di rassegnare il proprio mandato. Che questo andazzo gli piaccia è tutt’altro discorso, e infatti non apprezza. Così come nutre perplessità sui consigli ascoltati a palazzo Chigi, assai diversi dai propri auspici. Ma, per come sta interpretando il suo ruolo in modo notarile, Mattarella ha intenzione di entrare in campo solo se c’è una crisi conclamata, non una crisi politica strisciante. Il punto non è se è legittimo un governo di minoranza: sui precedenti si potrebbe scrivere un tomo a partire dal governo della “non sfiducia” di Andreotti. Il punto è che, se il presidente avesse voluto interpretare il suo ruolo in modo più interventista, sempre nell’ambito delle sue funzioni, lo avrebbe già fatto. Sottolineando, sin da ora nei colloqui che ci sono stati, la necessità di una maggioranza autosufficiente sugli imminenti adempimenti di bilancio (lo scostamento) che richiedono una maggioranza qualificata. Che è poi quel che fece Giorgio Napolitano con Berlusconi: prima fissò qualche paletto, in un contesto di emergenza assoluta che imponeva solidità di governo, e poi lo convocò al Colle dopo un voto sul “rendiconto”, passato alla Camera con maggioranza relativa.

E invece: Conte si appresta ad andare avanti, anche con un voto in più, Renzi si astiene in posizione quasi da appoggio esterno, il Quirinale, finora, osserva. È, semplicemente, la fotografia dell’impotenza, in cui nessuno ha la forza di mutare il grado di entropia del sistema, né Renzi di romperlo, né il governo di stabilizzarlo né il Pd di cambiarlo, dopo sette mesi in cui parla a vuoto di “svolta”, finché l’entropia non porta al collasso. Magari ci sarà la fiducia, e questo sarà vissuto da alcuni come una vittoria, ma il tema della stabilità resta squadernato in tutta la sua evidenza, appeso al voto dei renziani sul bilancio e sempre a rischio di incidente. Si continuerà a parlare di rimpasto, per non deludere gli appetiti degli affamati, continuerà la caccia ai parlamentari, e così via. In attesa dei numeri già si intravede il trionfo dell’inconcludenza politica, in cui non c’è mai un momento risolutivo e un approdo a un punto fermo: vaccini, tracciamento, immuni, Recovery, Alitalia, l’elenco è lungo. Non si conclude neanche la verifica, il rimpasto, i responsabili. Proprio nulla.