di ANTONIO FRONCILLO

All’epoca di Cristo, sulla scorta di numerosi testi profetici della Bibbia, era viva in tutto l’Oriente l’attesa della imminente nascita a Betlemme di un Messia “figlio dell’uomo”, discendente della stirpe reale di Davide. Della venuta del Messia erano convinti anche i Magi, che domandavano dove fosse nato il “Re dei Giudei”, di cui avevano visto sorgere la stella, ancora “più splendente del Sole”. L’averne parlato ad Erode valse a togliere il sonno al re, che, riuniti i sommi sacerdoti e gli scribi per informarsi sul luogo profetizzato della nascita del Messia ed avendo appreso trattarsi di Betlemme, ordinò la strage dei bambini di due anni in giù del “più piccolo capoluogo di Giuda”, onde eliminare ogni pericolo per il suo trono. La millenaria profezia del Vecchio Testamento, per la quale il Messia sarebbe nato a Betlemme dalla stirpe di Davide, non specificava che, di fatto, lo stesso avrebbe resieduto per una notevole parte della sua vita nella Galilea.

Il Sinedrio, che costituiva la suprema magistratura ebraica, ritenendo che dalla Galilea non potesse “venire nulla di buono”, non riuscì a riconoscere in Gesù di Nazareth l’atteso Messia, ed essendosi egli proclamato “Figlio di Dio”, ne ordinò l’arresto con l’accusa di empietà religiosa. Bisogna qui chiarire che nella Roma augustea il diritto romano penale era applicabile soltanto ai cittadini romani, mentre gli altri sudditi dell’Impero erano sottoposti al cosiddetto “ius gentium”. Questo prevedeva per coloro che si erano macchiati di delitti infamanti la crocifissione ed altri tipi di tortura, laddove per i cittadini romani era prevista la decapitazione, senza altre pene corporali. Cristo non era cittadino romano; pertanto, secondo gli schemi giuridici dell’antica Roma, egli era tutelato soltanto dallo “ius gentium”. Il processo religioso fu celebrato con la violazione di numerose prescrizioni procedurali della legge rabbinica.

Anche ai meno esperti del diritto apparirà quanto meno strano che esso abbia avuto luogo, non nella sede deputata, il “Beth Din”, ma prima nell’abitazione privata di Anna, ex sommo sacerdote, ed in quanto tale non più titolare di autorità, e poi, ancora, in un’altra casa privata, quella di Caifa, sommo sacerdote in carica. Ciò avvenne, evidentemente, perché l’udienza si svolse in tutta fretta, per la incombente festività della Pasqua ebraica, nella notte del Seder, in stridente contrasto con le prescrizioni della procedura ebraica, che prevedevano dibattimenti esclusivamente diurni e mai nei giorni festivi o di preparazione alle più importanti ricorrenze nazionali. Dopo l’escussione dei testi, che non fornì una prova certa alle accuse, anche per la discordanza e la contraddittorietà delle deposizioni, in dispregio alla norma del diritto giudaico, per la quale la confessione dell’accusato, non confermata da almeno due testimoni, era da ritenersi nulla o non avvenuta, la sentenza di morte fu pronunciata unicamente sulla base dell’affermazione di Gesù, erroneamente o volutamente interpretata come bestemmia, circa la sua natura divina.

Insomma, uno dei tanti verdetti già scritti, di cui la storia è piena. La pena capitale, per divenire esecutiva, necessitava, per le considerazioni innanzi esposte, della conferma del governatore romano. Poiché il diritto romano non prevedeva condanne a morte per questioni religiose che non fossero senza interesse per la maestà di Roma, i Sinedriti consegnarono Cristo al giudizio dell’alto funzionario imperiale, cambiando capziosamente il capo di accusa, da propagatore di false dottrine religiose a malfattore e sovvertitore dell’ordine costituito: “Noi lo abbiamo trovato che eccitava al disordine la nostra nazione, impediva di pagare il tributo a Cesare e si faceva passare per Cristo re”. Nulla di più falso rispetto a colui che aveva insegnato a rendere “a Cesare ciò che è di Cesare”, ma il carattere politico dell’imputazione non poteva non indurre Pilato ad istruire un processo, che a questo punto gli competeva, in ordine ai previsti delitti di incitamento alla rivolta, apologia dell’evasione fiscale e discrimen maiestatis, in concorrenza con la regalità dell’imperatore.

Anche qui, però, la procedura penale romana venne platealmente disattesa. In particolare, non venne assicurato all’imputato un difensore, non un confronto tra l’accusato, presente nel Pretorio, e gli accusatori, che stazionavano fuori, per non contaminarsi nella dimora di un pagano, considerata impura; né, ancora, una discussione in contraddittorio, tanto da poter convenire con i numerosi studiosi che hanno affermato non esserci stato vero processo. Il procuratore romano interrogò Gesù, che confermò la sua regalità, ma anche che il suo Regno non era di questo mondo. L’ambivalente concetto non apparve sufficientemente chiaro all’agnostico funzionario imperiale, che rimase alquanto perplesso: il proclamarsi re costituiva un delitto di lesa maestà contro l’imperatore, ma l’uomo aveva parlato di un regno ultraterreno. Pilato comprese, comunque, l’innocuità politica di Gesù. Nella sua considerazione apparve piuttosto come il capo di una nuova setta ebraica e le dispute religiose locali potevano interessare il Sinedrio, ma non Roma, che rispettava il credo di tutti i suoi sudditi. Non riscontrò, pertanto, alcuna colpa nell’accusato e si rifiutò di avallare la decretata condanna a morte.

Tuttavia, avendo saputo che Gesù proveniva dalla città di Nazareth, colse al balzo l’occasione per liberarsi dello spinoso caso, rinviandolo al giudizio di Erode Antipa, che aveva competenza territoriale sulla Galilea. Il tetrarca, però, non ravvisando anch’egli a carico dell’imputato alcun reato, restituì la cortesia, rimandandolo a Pilato, in un palleggiamento disonorevole per la giustizia. Rafforzato nel suo convincimento dall’analoga risoluzione assolutoria da parte di Erode, Pilato ribadì con maggiore forza la sua sentenza di non colpevolezza. Motivi di ordine pubblico, costituiti dalla pressione della folla, istigata dai Sinedriti, e la minaccia, neppure tanto velata, di ricorso all’imperatore, indussero, però, alla fine il governatore, dopo ulteriori tentennamenti ed espedienti, risultati vani, a cedere alle ragioni della politica - che troppo spesso nella storia hanno surclassato e schiacciato quelle della giustizia - e ad abbandonare Gesù al suo triste destino. Non rimase a Pilato che lavarsi simbolicamente le mani del sangue di quell’innocente, in un estremo tentativo di allontanare dalla sua coscienza un pesante gravame morale.

La motivazione vera della condanna alla crocefissione fu, dunque, di ordine politico, rappresentata dal fatto che la predicazione di Gesù metteva in pericolo l’apparato di potere costruito dal Sinedrio sulle fondamenta della religione; la ragione giuridica, che servì a giustificarla, fu scritta su un cartello apposto sulla croce, che inconsapevolmente riconosceva a Gesù la sua regalità: “Gesù Nazareno, Re dei Giudei”. Se ne accorsero anche i Sinedriti, che chiesero la correzione del testo nel verso di “Si è proclamato re dei Giudei”, ma Pilato, che di loro ne aveva ormai le tasche piene, li liquidò senza neppure tanti complimenti, con un “quod scripsi, scripsi”. Esiste, però, una ragione spirituale più alta: la missione di Cristo era quella di sacrificarsi per espiare il peccato di superbia commesso dall’umanità all’inizio dei tempi, in linea con quanto su divina ispirazione aveva vaticinato già nell’VIII secolo a.C. il profeta Isaia (53.5): “Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà la salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti”.