Giuseppe Conte sembra annegato nel brodo primordiale da cui era emerso tre anni fa. Da quando ha lasciato Palazzo Chigi, si fatica a seguirne le tracce. Azzerati gli incontri pubblici, rarefatte le esternazioni. Per costringerlo a prendere carta e penna, il direttore della “Stampa” Massimo Giannini ha dovuto rimproverargli una gestione disastrosa della politica estera, con la Libia regalata ai turchi. Allora si è scosso dal suo torpore. L’altra settimana ha scambiato un po’ di chiacchiere col nuovo segretario Pd, Enrico Letta, che tra l’altro è persona squisita: “Sensazioni positive”, ma nulla di più. Per confermare la propria esistenza in vita, Conte si è collegato un paio di volte con i parlamentari grillini. Si aspettavano il verbo, invece è lui che se lo attende da loro. Lancerà una “campagna di ascolto” prima di tracciare la nuova rotta. “Siamo in dirittura d’arrivo”, ha promesso.

Ma intanto le settimane passano, il popolo pentastellato freme e l’ex premier non mostra alcuna fretta di assumere con decisione il ruolo di capo politico che Beppe Grillo gli aveva affidato a metà febbraio. Che cosa diamine starà aspettando? Per caso il ritorno di Di Battista? È un fenomeno poco chiaro. Invece di ripartire subito a razzo mettendo in riga un mondo pentastellato allo sbando, assumendone saldamente la guida, l’Avvocato del popolo si è auto-collocato in stand-by. Forse è solo stanchezza, umanamente ha bisogno di ricaricare le pile, gli occorre una pausa prima di rituffarsi nel frullatore. La mattina fa jogging, spesso con la fidanzata Olivia; il resto della giornata lo trascorre asserragliato in casa. Magari dalla finestra osserva le nuvole e i gabbiani.

Secondo la vulgata, si dedica all’esame dello Statuto, spulcia le carte, procede nell’inventario delle diatribe che infestano il Movimento. Quasi svogliatamente, però. Senza l’urgenza di tirare le somme. Ancora non sappiamo che cosa pensi del doppio mandato, idem dei rapporti con la piattaforma Rousseau. Pare stia prendendo appunti per scrivere di suo pugno un vasto programma di “rigenerazione del Movimento ma senza rinnegare il passato”. Rivoluzionario sì, però fino a un certo punto. Novità nella continuità, da autentico democristiano. E proprio come i democristiani di una volta, Conte mostra di avere una percezione dilatata del tempo che prevede attese lunghissime, stagioni letargiche, eterne pause di riflessione. Se le prendeva pure al governo, decidendo di non decidere su Recovery Fund, Mes e Autostrade; figurarsi adesso che c’è Super-Mario.

Tra l’altro, viene rimarcato, se si mettesse a concedere interviste, a presenziare talk show, a convocare conferenze stampa, sarebbe indotto inevitabilmente a parlare del suo successore. Però elogiarlo suonerebbe ipocrita; attaccarlo inelegante e, addirittura, rischioso. Già, perché Draghi potrebbe imputare a Conte quella sfilza di manchevolezze che sempre si rinfacciano ai “passati governi”: dai disguidi della campagna vaccinale al ritardo dei ristori per non dire del resto. Entrambi ci farebbero una figura piccina. Meglio aspettare che l’effetto-Draghi svapori, i “giornaloni” smettano di esaltarlo e poi mettere le cose in chiaro, quando criticare il manovratore non sarà più sacrilego. Così ragionano gli estimatori di Conte. Eppure, perfino tra gli amici, si affaccia una certa inquietudine.

Inabissarsi è una tattica rischiosa. Anche Berlusconi scompariva per mesi, ma solo quando andava in depressione dopo una tranvata elettorale. Conte invece è reduce da un’epopea che l’ha portato a toccare vette di popolarità, con un gradimento tuttora superiore al 50 per cento secondo l’ultima rilevazione Ipsos di Nando Pagnoncelli. Quel consenso va nutrito, altrimenti illanguidisce e muore come è capitato ad altri in passato, perché fin dai tempi del Burckhardt gli studiosi stranieri del “carattere nazionale” ci considerano un popolo volubile, emotivo, che dimentica in fretta. Se non si dà una mossa, richiamando in campo Casalino, di qui alle prossime elezioni Conte rischia l’oblio. Figurarsi se non lo sa. Proprio per questo è strano l’atteggiamento. Riluttante, poco convinto, perfino neghittoso. Come se l’ex premier avesse un cruccio, un rifiuto.

E qui ci si addentra sul terreno scivoloso, della psico-politica. Può darsi che l’Avvocato del popolo non si veda bene nei panni di capo-popolo; dunque recalcitri alla prospettiva di guidare un partito; non se ne senta tagliato. O magari, dopo avere frequentato i Grandi del pianeta, consideri umiliante rapportarsi con Renzi, misurarsi con Salvini e dover battere in demagogia la Meloni. Che viva insomma la leadership dei Cinque stelle come una “deminutio”, una sorta di retrocessione: da Bisconte e Trisconte che si sentiva, a Conte dimezzato.

UGO MAGRI