DI MATTEO FORCINITI

Quello che era considerato come un modello nella lotta al coronavirus oggi è diventato uno dei paesi peggiori al mondo nel contenimento della pandemia. Nel giro di alcuni mesi l’Uruguay è passato dall’euforia alla paura, dall’orgoglio all’amarezza. Come è potuto succedere? 

Per capire cosa è successo in questo lungo e contraddittorio percorso bisogna fare un passo indietro di un anno e risalire al 13 marzo del 2020: con l’individuazione dei primi 4 positivi il Paese dichiara subito l’emergenza sanitaria sospendendo tutte o quasi le attività e chiudendo le frontiere.  Il governo di Luis Lacalle Pou si è insediato da poco meno di due settimane e si ritrova nel mezzo di uno tsunami annunciato che altrove sta già provocando grossi guai. La strategia del governo uruguaiano si basa sulle raccomandazioni alla cittadinanza con un punto fisso: niente quarantena obbligatoria, niente lockdown. Il perché è molto semplice da capire, una nazione povera non può permettersi il lusso di chiudere tutto. Le conseguenze sociali sarebbero ulteriormente peggiori rispetto alla malattia.

Il modello Uruguay all’inizio funziona e colpisce il mondo per la sua unicità. Senza misure drastiche il piccolo Paese sudamericano riesce a contenere l’avanzata del virus a differenza dei suoi vicini catturando su di sé gli occhi di un pubblico internazionale stupito. C’è un dato che aiuta a comprendere bene questa  prima fase iniziale di successo: secondo un sondaggio realizzato dalla compagnia Cifra, il 90% della popolazione è rimasta a casa nel primo mese accettando così i consigli delle autorità. Progressivamente prende piede la nuova normalità e la vita ricomincia a scorrere seppur con delle pochissime limitazioni. 

La situazione s'inizia a cambiare tra ottobre e novembre, i numeri crescono e diventano sempre più alti. Dopo nove mesi di relativa tranquillità l’emergenza sanitaria svolta pagina: l’Uruguay non è più quel paradiso a cui ci aveva abituato. La prima ondata si fa sempre più aggressiva arrivando -pur preceduta da un illusorio calo nel mese di febbraio- alla fase attuale, il peggior momento nell’evoluzione della pandemia.

L’Uruguay accumula record su record, cifre che schizzano alle stelle e mandano in frantumi quel modello vincente che ha saputo inorgoglire la sua popolazione: oggi, con un sistema sanitario sotto pressione, si ritrova al terzo posto al mondo per numero di morti mentre è primo per i nuovi positivi in base ai dati del sito Our World In Data relativi alle ultime due settimane. Il numero totale di morti sta per toccare quota 2mila, quasi 30mila sono attualmente i positivi.

Come è stato possibile tutto questo? Esistono dei colpevoli?

“Siamo stati vittime del nostro successo” sosteneva il ministro della Salute Daniel Salinas già a novembre con l’apparizione dei primi segnali scoraggianti. Era il presagio di una tempesta.

Oggi il dibattito è molto più duro, da una parte c’è chi chiama in causa i comportamenti delle persone che avrebbero abbassato la guardia, dall’altra chi spara a zero contro l’esecutivo. 

Il governo resta inamovibile sulle sue scelte, il presidente difende il concetto di libertà responsabile contro un’idea di stato di polizia mantenendo poche restrizioni e continuando a scommettere sul comportamento individuale della cittadinanza che in passato ha funzionato. Attualmente sono chiuse scuole, uffici pubblici non essenziali, palestre, centri termali e i “free shop”. Sono sospesi gli spettacoli pubblici e gli sport amatoriali mentre bar e ristoranti restano aperti ma con capacità ridotta e con la chiusura anticipata a mezzanotte.

Il governo avrebbe dovuto adottare misure più forti? Davvero si può ancora pensare che l’unico modo per combattere il coronavirus sia quello di chiudere tutto ignorando le conseguenze che tale scelta provocherebbe?

I sostenitori della linea dura accusano l’esecutivo di voler lavarsi le mani lasciando le responsabilità unicamente nelle mani dei cittadini. Eppure un anno fa i discorsi ufficiali e le misure adottate erano sostanzialmente identiche a quelle che ci sono oggi con l’unica differenza che il Covid 19 era ancora poco conosciuto e i numeri uruguaiani in confronto erano una barzelletta.

Un fattore che sicuramente ha influito, segnalano gli esperti, è la diffusione della variante brasiliana P1 molto più contagiosa: secondo il Ministero della Salute questa variante è stata riscontrata in 16 (su un totale di 19) dipartimenti e “in alcune zone come Rivera, Río Negro e Artigas è ampiamente predominante tra l’80% e il 90%”.

Il governo ha una grave colpa nella gestione di questa emergenza: quella di non aver contemplato un piano di assistenza sociale degno di aiutare realmente chi si trova in difficoltà. Un rapporto dello scorso anno della Cepal, la commissione dell’Onu per l’America Latina, posizionava il paese all’ultimo posto nel continente con il minor investimento sociale per combattere gli effetti della pandemia.

Al di là dell’aspetto sanitario, dei contagi e dei morti, la vera crisi del coronavirus è quella economica che nei paesi più poveri sta avendo conseguenze devastanti.

Non tutto però è perduto. La speranza c’è ed è la campagna di vaccinazione che viaggia a un ritmo impressionante e tra qualche mese porterà l’Uruguay via da questo tunnel che adesso sembra non finire mai: il 30% della popolazione ha ricevuto almeno una dosi, è uno dei tassi più alti al mondo.