Di GIANCARLO CASELLI

Lo storico Salvatore Lupo ha scritto: “a Palermo, attraverso il martirio di alcuni giudici, nasce la sorpresa che, in un’Italia senza senso della patria e dello stato, ci siano funzionari disposti a morire per il loro dovere, per questa patria e per questo stato. Così, a ogni funerale, a ogni commemorazione prende forma l’idea, di per sé contraddittoria, dei magistrati come rivoluzionari, in quanto portatori di legalità. E la formula ‘lo stato siamo noi’ acquista finalmente un senso”. Di questa idea Giovanni Falcone (ucciso 29 anni fa a Capaci) è un simbolo. Per inquadrare bene la sua figura è bene partire da molto lontano. Da quando la mafia neanche c’era. Nel senso che notabili d’ogni specie facevano a gara a negarne pubblicamente l’esistenza. Persino fior di magistrati. Falcone invece sapeva bene che la mafia esisteva e riuscì a contrastarla come mai nessuno prima di lui. Lavorando in pool con altri magistrati ( Paolo Borsellino in particolare) e con un metodo di lavoro per quei tempi assolutamente innovativo, basato su due parametri: la specializzazione degli operatori e la centralizzazione dei dati, in modo da non disperderli in mille rivoli non comunicanti. Utilizzando inoltre al meglio lo strumento del 416 bis (il reato di associazione mafiosa), prima del quale – parole sue - “pretendere di sconfiggere la mafia era come pretendere di fermare un carro armato con una cerbottana”. Completa il quadro la collaborazione di vari pentiti, primo fa tutti Buscetta, che consegna a Falcone il codice per decifrare Cosa nostra, una specie di lingua ancora sconosciuta. Risultato? Un capolavoro investigativo giudiziario, il maxi processo. Maxi non perché Falcone ( ma è stato detto...) volesse a tutti i costi finire sotti i riflettori. Maxi perché maxi era stata fino a quel momento l’impunità di Cosa nostra che “non esisteva”: per cui pochissimi erano stati i processi e meno ancora le condanne. Di colpo, venuta finalmente meno la storica impunità, ecco emergere una massa di delitti che confluiscono in un processo di proporzioni enormi (maxi, appunto): un’infinità di capi d’accusa, dall’associazione all’omicidio, per 475 imputati; in assise condannati a 19 ergastoli e 2665 anni di carcere. Mai successo prima. La fine del mito dell’invulnerabilità’ di Cosa nostra. Ma a questo punto della storia si entra nel regno dell’assurdo. Invece di essere sostenuti e aiutati a proseguire la lotta alla mafia, Falcone e gli altri del pool vengono spazzati via. Su di loro si scarica una valanga di accuse ingiuste e calunniose: professionisti dell’antimafia; uso spregiudicato dei pentiti; teoremi invece di prove; giustizia piegata a fini politici di parte. Campagne infami ma ben organizzate che alla fine riescono ad azzerare il pool e il suo metodo di lavoro vincente, facendo arretrare l’antimafia di almeno vent’anni. Una vergogna assoluta. Per la nostra democrazia un suicidio. Il culmine dell’assurdo fu raggiunto quando a capo dell’ufficio giudiziario da cui dipendeva il pool, invece del campione indiscusso dell’antimafia (Falcone), la maggioranza del Csm preferì un magistrato totalmente digiuno di mafia. Paolo Borsellino parlerà di una tremenda e ingiusta umiliazione inflitta a Falcone, favorita da qualche giuda. Polemica dopo polemica, attacco dopo attacco, Falcone alla fine è costretto ad emigrare. A Palermo tutte le porte gli vengono sbattute in faccia. Deve chiedere “asilo” al ministero della giustizia di Roma. Tenace, coraggioso e carico di etica della responsabilità Falcone di certo non poteva “dimettersi” dall’ antimafia. E difatti al ministero è protagonista di iniziative importantissime. In particolare l’elaborazione di una nuova strategia antimafia: sia con l’estensione a tutto il territorio nazionale dei criteri, specializzazione e centralizzazione, collaudati a Palermo ( ed ecco la Procura nazionale e le Procure distrettuali antimafia supportate dalla Dia, una specie di FBI italiana, con tanto di banche dati) ; sia con interventi sul piano legislativo: valorizzando la legge sui pentiti e ideando per i detenuti mafiosi, che spadroneggiavano anche in carcere, il cosiddetto 41 bis. Intanto, il maxi arriva in Cassazione. Il primo presidente Brancaccio aveva operato una rotazione nella trattazione dei processi di mafia, prima esclusivo appannaggio della sezione di Corrado Carnevale, poco affettuosamente definito dai media “ammazzasentenze”. Questa volta la Cassazione conferma definitivamente, nonostante gli imbrogli di Cosa nostra per aggiustare il processo, le solidissime accuse del pool e quindi le condanne. Due fattori intollerabili (condanna definitiva inaspettata e nuova pericolosa strategia antimafia) convergono nella mente criminale dei mafiosi. Per l’organizzazione è un momento di pesante sconfitta. Tuttavia, con bestiale violenza omicida Cosa nostra cerca di dimostrare a tutti che essa resta comunque più forte. Si apre la stagione delle rappresaglie contro gli “amici” che con la mafia avevano stretto patti non mantenuti; mentre contro Falcone e poi Borsellino, i principali “nemici” in quanto autori del del maxi, si organizzano le stragi di Capaci e via d’Amelio.. Così, due pilastri dell’antimafia vengono eliminati. Un duplice attacco al cuore della democrazia che Andrea Camilleri ha paragonato all’abbattimento delle Torri Gemelle. Dopo le stragi, Nino Caponnetto, interpretando il sentimento di tutti gli italiani, disse che “Era tutto finito, non c’era più niente da fare”. La nostra democrazia sembrava condannata a diventare un narco-stato controllato da criminali stragisti. Ma non fu così. Dall’impegno di tutti (politici “magicamente” uniti, forze dell’ordine, magistratura e società civile: le lenzuola bianche di Palermo) è scaturita una vera e propria Resistenza. Cosa nostra ha dovuto subire un forte arretramento: latitanti arrestati come mai, né prima ne dopo, per numero e caratura criminale; una slavina di pentiti; processi e condanne ( 650 ergastoli); beni confiscati per l’ ammontare di una piccola “finanziaria”; armi e missili tolti alla mafia; processi non solo contro l’ala militare ma - doverosamente - anche contro l’altra componente essenziale di Cosa nostra, i complici “eccellenti” della zona grigia. Personalmente, sono orgoglioso di aver potuto contribuire a questi risultati, decidendo, dopo le stragi del 1992, di chiedere al Csm di esser trasferito dalla Corte d’assise di Torino a Palermo, come capo di quella procura. E’ stato il mio tributo a Falcone e Borsellino. E a tutti i “rivoluzionari” di cui parla S. Lupo.