È l’immagine in assoluto più condivisa nelle ultime 24 ore: quella dei compagni di Eriksen schierati a cerchio attorno a lui a terra che riceve i primi soccorsi.

È un’immagine bellissima, ovviamente, proprio per il suo valore etico: i compagni che – letteralmente – fanno scudo.

A cosa? Ma a noi, al nostro sguardo che – in questo tempo continuamente, capillarmente osservato e condiviso, momento per momento – è dappertutto, chiede di essere dappertutto.

E qui è il valore di potente metafora e contraddizione che quest’immagine porta con sé: ci piace, ci tocca proprio quel “riparo”, quello schermo dello sguardo che rappresenta. Quello schermo dai nostri occhi, dal mondo che abitiamo ogni giorno, che sta ben saldo a cavallo tra le cose che facciamo e viviamo e le cose che rappresentiamo, fotografiamo, filmiamo, osserviamo, scrutiamo, chiediamo di vedere in ogni momento, salvo poi protestare che è troppo, è ingiusto, è spietato.

È paradossale ed enorme, quest’effetto: noi, platea di osservatori-scrutatori-documentatori incontriamo un “bug”, uno scudo, un “no, qui non si passa” e – (confortante) sorpresa – ne siamo felici, ne riconosciamo il potere e il valore. E ce lo scambiamo nel modo in cui scambiamo ogni immagine, in quell’ “impero degli occhi” che è il web (e in ispecie i social). Impero di cui però è solo occasionale la messa in discussione e la cui onda torna a travolgerci un minuto dopo: ne fanno parte, anche se non sono strettamente immagini, tutte le code polemiche, i “flame” (che sarebbe parola bellissima, se non fosse usata in modo osceno: il suo uso ha corroso il suo significato originario, come accade a molte cose del nostro mondo), gli insulti faziosi, il sarcasmo (parola la cui etimologia è esemplare: “sarkazein”, lacerare la carne). 

Sì, ce ne sono anche sotto quest’immagine perfetta: chi chiede se Eriksen fosse vaccinato, chi sottolinea con disprezzo che “sono solo milionari che proteggono la privacy di uno di loro”, e via a continuare il ballo collettivo, la mostra (i mostri) condivisa.