Di Ugo Magri

Le torte in faccia tra Salvini e Meloni sono un vero godimento per gli avversari. Ogni volta che se le tirano parte una “ola”, perché certe cose un tempo accadevano soprattutto a sinistra; D’Alema, Bertinotti, Prodi ci avevano portato a credere che farsi male da soli fosse prerogativa tipica del mondo progressista, l’autolesionismo quasi un segno di appartenenza, mentre sul fronte opposto non ne sarebbero mai stati in grado. Invece eccoli là, Giorgia e Matteo, dare allegro spettacolo: sui servizi segreti, sui candidati sindaci, adesso pure sulle poltrone Rai. La loro faida potrebbe alimentare una stupenda serie tivù perché gli ingredienti ci sono tutti: ripicche e vendette, colpi bassi e dispetti. Ma alla ruggine personale si aggiunge dell’altro, molto di più, su cui vale la pena riflettere perché riguarda l’intero sistema politico italiano, “gauche” compresa.

Anche se quei due volessero andare d’accordo, sarebbero condannati a combattersi come gladiatori nell’arena. Chi ce li obbliga è il “Rosatellum”: legge elettorale nata con le migliori intenzioni ma snaturata da qualche mente perversa. Mette in palio un bottino di seggi, la cosiddetta quota maggioritaria, che costringe i leader a fare alleanze perfino quando non ne avrebbero alcuna voglia. L’intento è sapere prima del voto chi farà accordi con chi, invece di scoprirlo dopo, e invogliare i partiti a remare dalla stessa parte nella prospettiva di governare insieme. Sulla carta una meraviglia. Sennonché poi il “Rosatellum” assegna due terzi dei seggi col metodo proporzionale, che è una contraddizione in termini perché invece di fare squadra ciascuno viene spinto a giocare per sé. Se ti chiami Meloni, o Salvini, il tuo peggior nemico diventa chi più ti somiglia perché si rivolge agli stessi potenziali elettori e cerca di portarteli via.

Come se non bastasse, chi prende più voti nell’ambito di un’alleanza nei fatti ne diventa leader; in caso di vittoria può rivendicare la guida del governo: il che sparge ulteriore benzina sul fuoco, aggiunge inimicizia alla normale rivalità, dal piano politico trasferisce lo scontro su quello personale come sta avvenendo a destra e, tra non molto, capiterà a sinistra. Perché fino adesso Pd e Cinque stelle si sono concentrati sul rispettivo ombelico, i “dem” hanno cambiato il leader e i grillini pure; ma presto dovranno decidere se fare alleanza in vista delle elezioni e mettere insieme un vasto fronte, il più ampio possibile, per battere una destra nei sondaggi strafavorita. A quel punto non ci sarà scampo: tra Enrico Letta e Antonio Conte scatterà la stessa perversa dinamica che costringe a sommare le forze nei collegi uninominali però dilaniandosi in quelli proporzionali, a presentarsi uniti per il governo ma in guerra per la leadership, a correre insieme facendosi gli sgambetti fino al giorno del voto e magari anche dopo.

Purtroppo è materia che non appassiona la gente, del resto l’Italia ha ben altri problemi. Nelle redazioni è vietato parlarne (“che barba, che noia”); i partiti sembrano esausti. Nessuno ha intenzione di correggere un congegno diabolico che fonde tragicamente insieme i difetti del maggioritario (alleanze create per vincere, non per governare) con le magagne del proporzionale (ognuno per sé e Dio per tutti): il peggio dei due mondi. L’unica modifica di cui sottovoce si ragiona riguarda i collegi uninominali. Qualcuno vorrebbe ridurli di numero e trasformarli in un “premio” per chi vince, al solo scopo di scongiurare l’inferno che si scatenerà prima delle elezioni quando i leader dovranno scegliere quasi 200 candidati comuni litigandoseli a uno a uno. La stessa sorte dei capponi di Renzo; che erano destinati in pentola; ma anziché starsene buoni “s’ingegnavano a beccarsi l’uno con l’altro, come accade troppo sovente tra compagni di sventura”.