di Matteo Forciniti

Fu una fuga da record che coinvolse 111 prigionieri, un avvenimento incredibile che in questi giorni viene ricordato per il suo cinquantesimo anniversario. 

I protagonisti dell'evasione di prigionieri politici più grande della storia furono i Tupamaros - MLN (Movimiento de Liberación Nacional), una guerriglia urbana nata a Montevideo negli anni sessanta durante un contesto politico molto turbolento: quella che era considerata la "Svizzera d'America", con una democrazia stabile e una maggiore redistribuzione della ricchezza, iniziava a sentire gli effetti della violenza che si stava trascinando con veemenza nel continente latinoamericano avvolto da forti proteste popolari, malcontento e ribellione.

All'inizio del 1971 quasi tutto il vertice dei Tupamaros era rinchiuso nel carcere di Punta Carretas dopo una serie di azioni violenti e spettacolari che conferirono a questa guerriglia un carattere unico e assolutamente nuovo per l'epoca. Tra i prigionieri c'erano Raúl Sendic, il futuro presidente della Repubblica José "Pepe" Mujica, Eleuterio Fernández Huidobro (che diventerà ministro della Difesa tanti anni dopo) e Jorge Amílcar Manera Lluberas, un ingegnere che si rivelò fondamentale nell'organizzazione dell'operazione di fuga ribattezzata "El abuso" che contava tra l'altro un famoso precedente che dava speranza. Il piano doveva realizzarsi alla svelta dato che incombeva su di loro la minaccia di un possibile trasferimento sulla Isla de Flores, una piccola isola di fronte alla città e dalle quale sarebbe stato impossibile scappare. 

Con attrezzi di fortuna come fili estratti dai letti, posate e qualcos'altro, i "tupa" riuscirono in un mese a completare un piano perfetto corrompendo alcune guardie e scavando in continuazione: il primo obiettivo era far comunicare una cella con un'altra lungo i 4 piani dell'edificio creando un cammino in modo che i detenuti si potessero alternare durante i turni di scavo divisi in gruppi di 3 persone. Per nascondere questi buchi tra i muri vennero appesi poster di ogni tipo, soprattutto ragazze nude e squadre di calcio, ma anche vestiti. In seguito a partire dall'ultima cella, la numero 73, iniziarono a scavare un tunnel di 40 metri che arrivava fino a una casa situata dall'altra parte della strada.

Anche se il piano era stato minuziosamente preparato in ogni dettaglio, le difficoltà furono notevoli a cominciare dall'enorme quantità di terra che doveva essere nascosta come ha spiegato "Pepe" Mujica nel documentario "Tupamaros: la fuga": "Ci eravamo inventati un meccanismo complesso per comprimere la terra. La sistemavamo sotto i letti e sotto le coperte. Alla fine la terra ci arrivava alla gola: dovemmo sistemarla in luoghi inverosimili ma riuscimmo a nasconderla".

Un altro problema sorse quando trovarono le fondamenta del muro di recinzione del carcere che era molto duro e fece un po' allungare i tempi stabiliti. Anziché avanzare 4 metri al giorno, per un breve periodo l'avanzata fu di soli 10 centimetri al giorno finché non riuscirono ad aggirare il muro e potendo così proseguire gli scavi. Man mano che il tunnel si allungava, tuttavia, un'altra grande difficoltà sorse durante i lavori: la mancanza di aria.

Fu a questo punto che i Tupamaros vennero aiutati dall'incontro di un altro tunnel, quello costruito quarant'anni prima durante un'evasione orchestrata da un gruppo di anarchici. Si narra che il cervello della famosa fuga del 1931 fosse un emigrato italiano conosciuto come Gino Gatti anche se il suo vero nome era Giuseppe Baldi: era nato in Lombardia a Corana, un paesino della provincia di Pavia, e arrivò in Sud America negli anni venti stabilendosi tra l'Argentina e l'Uruguay.

Insieme all'aiuto dei suoi compagni, Gatti era riuscito a costruire una galleria sotterranea che collegava i bagni di un padiglione del carcere con un edificio posto subito fuori dal perimetro della prigione dove era stato allestito un negozio di legna e di carbone: in realtà era un'attività di facciata che serviva per mascherare i sacchi pieni di terra estratta dal tunnel sotterraneo che venivano continuamente trasportati. I Tupamaros conoscevano questa storia e quindi decisero di ribattezzare i due tunnel adesso comunicanti con due nomi diversi: il tunnel da loro scavato venne chiamato Lenin, l'altro, quello degli anarchici, Kropotkin dove affissero un cartello il giorno della fuga in segno di riconoscimento: "Due ideologie e uno stesso obiettivo: la libertà".

La fuga dei Tupamaros si concretizzò la notte del 6 settembre del 1971 con un giorno di ritardo rispetto a quanto previsto. I guerriglieri erano 106 a cui si aggiunsero altri 5 detenuti. Fuori, ad organizzare il tutto, ci avevano pensato i militanti rimasti liberi che si preoccuparono di fornire soldi, vestiti e mezzi di trasporto agli evasi per poter scappare e poi finsero anche anche dei disturbi nella zona di La Teja -dall'altra parte della città- per poter così distogliere l'attenzione delle forze dell'ordine cadute nell'inganno.

Incredibilmente, a cinquant'anni esatti dalla fuga di Punta Carretas se ne è consumata un'altra ugualmente spettacolare in Israele che ha coinvolto 6 jihadisti palestinesi provocando una grande scandalo in una data che evidentemente nasconde qualcosa di speciale.

Dove c'era il carcere di Punta Carretas a Montevideo oggi c'è un grande centro commerciale dove le luci del consumo hanno preso il posto delle ferite della storia.