di Alessandro De Angelis

E dunque il Green pass varrà anche per parlamentari, senatori e chiunque frequenti il Palazzo, come accade per tutti i cittadini, anzi magari con controlli più capillari, a uno a uno, e non "a campione", come accade nei luoghi di lavoro (leggi qui Gabriella Cerami). Bene, benissimo, era ora. In un paese virtuoso, dove vige un po' di sana pedagogia istituzionale, i gruppi parlamentari avrebbero già potuto, o dovuto, autodisciplinarsi "informalmente" in tal senso con i comportamenti, senza neanche che il dibattito si aprisse. Per ragioni, banalmente, di senso democratico: i rappresentanti di rappresentati cui viene comunque chiesto un sacrificio non possono esserne alieni, se non vogliono rompere quel vincolo di rappresentanza.

Comunque, dicevamo, bene. Di questi tempi, anche ciò che è dovuto non è scontato. Per carità, lasciamo stare la vulgata corrente da un po' di anni a questa parte, il "ci si può aspettare di tutto da questi parrucconi con i loro privilegi". Quelli che così sono stati così chiamati dal Torquemada collettivo spesso sono garanzie e strumenti di tutela del proprio ruolo. Si chiama, con una parola difficilissima, "autodichia", facoltà di autoregolamentarsi al fine di tutelare l'indipendenza del potere, in questo caso, legislativo. È il principio in base al quale l'estensione non poteva essere "automatica", ma era necessario un passaggio nell'ufficio di presidenza nei due rami del Parlamento.

Passaggio corretto, secondo la grammatica istituzionale. Perché in linea di principio è giusto chiedersi se si può impedire a un parlamentare di entrare in Aula se non è munito di certificato e se questo rappresenti la negazione nell'esercizio di un potere dello Stato. Parecchi puristi della Costituzione (alla giornata) già annunciano ricorsi alla Corte costituzionale, per violazione delle prerogative parlamentari. Che poi, per strana ironia della storia, sono proprio i professionisti dell'Anticasta.

Ci sono almeno due questioni che rendono legittima la scelta, oltre al principio etico-politico più generale. La prima attiene al concetto di "libertà". Scusate la prosaicità, ma in Aula non si può entrare neanche senza giacca. Se non la indossi, i commessi non ti fanno entrare e nessuno ha mai gridato allo scandalo, pur essendo una costrizione rispetto alla libertà di girare smanicati per le Aule. Bene, si dirà: ma nel paese non c'è un movimento "no giacca", che il parlamentare vuole rappresentare, con coerenza di comportamenti, che non si può limitare. Ma neanche in questo caso viene compressa la libertà, perché, in punta di diritto, non è stato stabilito un impedimento preventivo: non viene vietato al parlamentare l'accesso prima, c'è la multa o la sospensione dopo. E comunque un "no-vax" può accedere con il semplice tampone.

La seconda: il Parlamento è un organo costituzionale, ma è anche un luogo di lavoro (Aula, uffici, stanze per le riunioni, spazi comuni, biblioteche) e dunque c'è un problema di tutela della salute delle persone con cui si entra a contatto, al pari degli altri luoghi di lavoro. È la solita storia della libertà propria e di quella degli altri. Per lo stesso principio, quando il vaccino non c'era, è stato fissato il criterio di distanziamento, gli accessi limitati, la chiusura di alcuni spazi.

Non facciamola tanto lunga. Qui il diritto non c'entra. Questa discussione diventerà l'occasione, per qualcuno, di vestire i panni del martire della libertà per ammantare di nobili principi la battaglia contro obblighi e vaccini. Tutto qui: una questione di esibizionismo.