Oggi, violano il santuario della Cgil, fanno il saluto romano, ma, come insegna Trieste, basta un idrante e si squagliano. Il problema, come sempre è nel manico, ma il manico oggi è in mano a gente nell’insieme perbene. Non devono difendere trono o dinastia. La lezione del 28 ottobre, che forse nemmeno più i fascisti della Meloni celebrano, è che se lo Stato è debole, l’Italia è in ginocchio. Lo Stato non fu in grado di fermare le follie socialiste, affidò ai fascisti il lavoro sporco, alla fine fu travolto. Lo Stato non può essere buonista e nemmeno buono. L’indulgenza si paga. I sindacati non occupano le fabbriche e non fanno scioperi generali. Li minacciano, come quello al bar che dice: tenetemi se no lo pesto. E guardano con gli occhi sgranati esterrefatti, il primo ministro Mario Draghi che si alza e se ne va, mollandoli lì al tavolo. Ne sono passati di anni, quasi 50, da quando l’annuncio di uno sciopero generale bastò per indurre un predecessore di Draghi, Mariano Rumor, a dimettersi. Oggi mi inferocisco quando cammino tranquillo su un marciapiede di Roma e mi sento sfrecciare da un lato un monopattino con due ragazzi a bordo. E incrocio, sullo stesso marciapiede, una bici con mamma e bambino che pedala in senso opposto. E L’Istat sentenzia che una coppia di over 60 a Milano è assolutamente povera se spende in consumi in un mese meno di 942 euro. Non sono riuscito a capire cosa ci sia nella lista della spesa dell’Istat. Dice solo che un italiano su 10 è in quelle condizioni. Ma un secolo fa, e anche mezzo secolo fa se è per questo, eravamo 7 su dieci in povertà assoluta, la fame era fame, i servizi igienici erano in comune sul pianerottolo, i cappotti si rivoltavano tre volte. Oggi, con buona pace dell’Istat, non risulta che si muoia di fame, tutti hanno almeno un telefonino, anche i barboni per strada. E il cappotto lo butti e ne compri uno in saldo da H&M o a Porta Portese. Erano gli anni di piombo. Se uscivi di casa, dovevi badare agli agguati delle Br. L’aria era satura di elettricità politica e dell’odore mefitico degli scarichi delle auto. Anche la voce della addetta al radio taxi di Milano trasmetteva odio. Merito delle generazioni che ci hanno preceduto e dei loro sacrifici. Certo, se in Italia c’è chi vota Beppe Grillo e la Meloni, vuol dire che abbiamo imparato poco. Ma per fortuna siamo nel mercato comune europeo, siamo in un continente senza dazi. (Quando ero bambino il dazio si pagava anche sulle uova e il burro che entravano in città, retaggio medievale a metà del ventesimo secolo. Se ne accorgeranno gli inglesi con la loro Brexit). Da un lato siamo sempre un Paese di serie B, così ci considerano i grandi del mondo. Dall’altro siamo un miracolo, se pensiamo che quando Giuseppe Verdi esordì alla Scala, Milano era colonia dell’Austria, Venezia e Trieste erano lo sbocco al mare di Francesco Giuseppe e di Sissi. Siamo uno Stato da 150 anni, il Kenya da 60, Francia e Inghilterra da 700. Ai tempi di Mussolini e della sua fasulla Marcia su Roma, l’Europa aveva appena lasciato sui campi di battaglia dal Mare del Nord ai Dardanelli, 16 milioni di morti e 20 milioni tra feriti e mutilati. Con l’aggiunta di qualche milione perso per l’influenza spagnola. I morti per covid in Europa si aggirano sul mezzo milione: progresso, educazione, medicine. Nella storia, una imposizione fiscale sopra il 10% provocava sanguinose rivolte. Oggi superiamo il 50% e continuiamo a divertirci, viaggiare, mangiare: nemmeno il coronavirus ci ha fermato, ora siamo in pieno boom di turismo e di consumi. Speriamo che duri, è la nostra sola speranza.