di Alessandro De Angelis

 

C’è uno strano odore nell’aria, la cui scia porta alle parole – un po’ troppo definirla una “linea”, un po’ poco “riduzione del danno” - che Matteo Salvini, diventato più taciturno ai limiti dell’ammansito in pubblico, va ripetendo ai suoi in privato: “Ingoiamo i rospi fino a febbraio”. La scia, dalla parte opposta, porta, e l’odore non è poi così dissimile, al concetto che Enrico Letta ha accennato incontrando i sindaci del Pd: “La stagione di Draghi a un certo punto finirà e la politica dovrà riprendersi le sue responsabilità”. Non proprio un “Draghi dopo Draghi”, perennemente imbullonato a palazzo Chigi – prima, durante e dopo il 2023 - ma la politica dopo Draghi. Se poi il cronista, col naso all’aria e il taccuino in tasca, volesse entrare nelle stanze dove Conte, appena sceso con poca gloria dall’Aventino sui talk del servizio pubblico, distribuisce incarichi con un occhio alle liste che verranno, si potrebbe annotare questo: è come se le leadership di questo paese fossero in attesa di un evento liberatorio – fuor di metafora: Draghi al Quirinale – anche se i cui confini sono ancora avvolti in una nebulosa.

Sì, va bene: l’inerzia profonda del Parlamento, la storia dei tacchini che vedono in Draghi il Natale perché “chi lo fa un governo senza di lui” – si è capito, il punto non è il vitalizio che arriverà a 65 anni, ma i “pochi maledetti e subito”, vuoi mettere quante mensilità ci sono fino al 2023 – bene tutto, però la politica, quella che c’era e anche quella che c’è, si nutre anche di irrazionalità, ma alla fine i fondamentali  tornano sempre, in una logica razionale. E la voglia di votare ce l’hanno un po’ tutti.

Ce l’ha innanzitutto Salvini, e spiega questa Caporetto in definitiva accettata dal leader della Lega, che si becca un Green Pass allargato, un Super Green Pass e pure l’obbligo ai poliziotti che arringa, in fondo senza battere più di tanto ciglio (per molto meno sulla delega fiscale disertò il consiglio dei ministri). Insomma, questi sono provvedimenti duri, che si prestano pure a un dibattito mica alla camomilla di quattro spin sulle tensioni interne. E il giorno dopo, e non in omaggio al Vangelo ma al realismo, porge pure l’altra guancia sull’Irpef costretto a dire che l’ha sempre voluta e non solo Irap chiedeva. Ci si può anche raccontare la storiella di un leader pressoché interdetto dai suoi, oppure di uno che, proprio ingoiando l’amaro calice sta lavorando per uscire dalla trappola in cui si è ficcato, perché se Draghi va al Colle, e dunque cade il governo, cambia tutto e nelle liste conta più il segretario che le constituency del paese. A proposito di calici, con l’immigrazione fuori controllo nel Mediterraneo, tutto tace, anche nei giornali di destra.

Certo è un paradosso che la way out per il maschio alfa leghista sia proprio nella strategia della Capitana Meloni – lei egemone, lui subalterno perché la linea Giorgetti lui proprio non ce l’ha in canna – che è diventata una grande elettrice di Draghi sognando il sorpasso nelle urne. Tant’è, del resto Salvini sa che, avanti così, al 2023 arriva cotto come leader, altro che tacchini. Dunque, dice, bene tutto, purché col Quirinale, partita che Draghi non solo non ha chiuso ma tiene molto aperta, ci si liberi dall’imbarazzo.

Ce l’ha (quella voglia) Letta che pensa di potersela giocare, e Conte che, pure lui, avanti così, tra un dileggio da parte di Grillo e un inseguimento verso Di Maio, si troverà nel 2023 a essere il protagonista di una leadership che si è consumata prima di essere esercitata. Insomma, stringiamo: tutti sanno che c’è un unico fattore in grado di tenere un equilibrio che sta stretto a tutti, a destra come a sinistra: il Covid, l’unica che rende impronunciabile la parola elezioni e inchioda Draghi proprio nel posto da cui vuole andarsene. Perché il Quirinale, fino a poco tempo fa una legittima ambizione è diventato anche un modo per liberarsi elegantemente da un governo per cui il prossimo anno è un percorso a ostacoli più che una marcia trionfale, tra Pnrr già in ritardo e partiti in campagna elettorale per le politiche. Ecco, se riprende la pandemia, è inevitabile continuare in questa coabitazione forzata che mai si è trasformata in un patto politico. E tutti, proprio tutti quelli che stanno costruendo via d’uscita restano incastrati, in una fase sulla quale ormai non hanno più di tanto neppure la testa. Che è già a febbraio.