di James Hansen

È appena passato il 6 gennaio, l’anniversario della violenta manifestazione a Washington che ha accompagnato la formalizzazione della vittoria elettorale di Joe Biden su Donald Trump alle ultime presidenziali. I fatti di quel giorno—che costarono la vita a cinque manifestanti (uno sparato dalla polizia, un’overdose e tre morti per cause naturali) e il ferimento di 138 agenti di polizia, di

cui 15 ricoverati—sono all’esame di una Commissione d’indagine della House of Representatives.


Dei nove membri della Commissione, sette sono Democratici e due Repubblicani nemici di Trump. Non si tratta di una giuria imparziale. Comunque sia, la Commissione ha ora proposto di tenere le sue riunioni conclusive in diretta televisiva nelle ore di massimo ascolto per “permettere a più americani di sentire le testimonianze riguardo alle azioni 
dell’Amministrazione Trump” relative agli eventi di quella giornata.

Che ciò possa succedere è da vedere. La proposta è “irrituale”, le reti televisive americane sono private, non pubbliche, e vedersi espropriare il palinsesto per promuovere gli interessi di un partito rispetto a un altro potrebbe non sembrare prudente. È dubbia anche la saggezza politica della mossa. L’essere riusciti a negare l’uso dei social a Trump è stato visto dai suoi seguaci come una conferma delle sue accuse al power establishment Dem e non pare avere intaccato la sua popolarità.

Soprattutto, la proposta sembrerebbe un sintomo di panico. Malgrado tutto, Trump resiste, forse cresce, mentre Biden—insieme inetto (Afganistan) e sfortunato (inflazione galoppante)—è “sott’acqua” nei sondaggi e la sua vice, Kamala Harris, il piano “B”, si è rivelata un disastro. Di questo passo, esiste il rischio concreto che l’antipatico Trump possa ripresentarsi alle prossime presidenziali con una discreta possibilità di vincere. Ci vorrebbe dunque un piano “C”, uno che parrebbe emergere da una curiosa innovazione grammaticale nel linguaggio impiegato dai Dem per descrivere gli eventi di quel 6 gennaio. Mentre finora si è usata perlopiù l’espressione “attacco alla Capitale”, la preferenza ora è per il termine aulico “insurrezione”, meno efficace dal punto di vista comunicativo, ma suggestivo per l’effetto legale.


Il 14° emendamento alla Costituzione—introdotto nel 1866, alla fine della Guerra Civile—estende i diritti civili agli schiavi appena liberati e inoltre vieta l’elezione alla Presidenza od altro alto incarico a chiunque, avendo in precedenza giurata lealtà agli Stati Uniti, abbia poi partecipato a una “insurrezione o ribellione agli stessi”. L’intento era quello di escludere dalla politica i leader della ribellione sudista da poco domata, un conflitto che causò la morte di oltre 600mila combattenti.


Il dizionario Treccani definisce “insurrezione” come una “sollevazione in armi di un’intera popolazione o parte di essa contro i poteri dello stato, allo scopo di sostituirne l’organizzazione”. La comune definizione inglese è simile. Bisognerebbe dunque imporre un nuovo senso alla parola per usarla allo scopo di escludere la ri-candidatura di Trump, ma “insurrezione” è lì, pronta all’uso se solo—attraverso la ripetizione martellante—si riesce a utilizzarla per impostare la narrativa degli eventi del 6 gennaio 2021.


Povera America, almeno potenzialmente obbligata a scegliere tra l’incontinenza comportamentale di Donald Trump e l’incompetenza esecutiva di Joe Biden.