di Pietro Salvatori
È finita con i 5 stelle che danno a Mario Draghi del bugiardo, e il premier che risponde con un certo stile inviando il testo delle sue risposte a braccio, come a dire se non capite leggete meglio. È l’ennesimo psicodramma di un Movimento che negli anni avrà sì demolito i propri totem, rinnegato le proprie convinzioni, scartato dall’una all’altra alleanza politica senza soluzione di continuità, ma da quando ha perso la fetta di potere più grossa, quella di stanza a Palazzo Chigi, si è accartocciato in un fiume in piena di faide, sospetti e scontri all’ultima carta bollata che lo hanno reso esangue e sfibrato.
Già nel solo sloggiare dalla sede della Presidenza del Consiglio si è consumato uno psicodramma. Arriva Draghi e il sempre tempestivo Vito Crimi dice che giammai i pentastellati potranno sostenere un governo tecnico. Quel Crimi che all’epoca aveva un certo peso all’interno del partito, diventato gestore di una transizione che doveva durare un mese ed è durata più di un anno, latrice di buona parte dei guai in cui sono avviluppati i 5 stelle. E insomma Crimi dice giammai, poi nel giro di 24 ore cambia tutto. Beppe Grillo decide che non si può rimanere ai piedi del tavolo, si inventa il grande bluff della transizione ecologica, dice che Draghi è un grillino e via, a bordo con l’ex Bce. Apriti cielo. Alessandro Di Battista ci mette un paio di giri d’orologio per sbattere la porta, l’accroccata caccia ai responsabili, l’operetta che ha suonato mentre il sipario sul Conte II si abbassava, diventa in un battibaleno la corsa a persuadere la truppa a non sfaldarsi, a “marciare compatta come una testuggine”, per non disperdere il patrimonio di eletti conferito dal voto degli elettori. E certo come no, è una slavina. Una dozzina di peones fa ciao con la manina, almeno altrettanti sono cacciati dopo aver votato no alla fiducia, nel mazzo nomi storici come quelli di Nicola Morra e Barbara Lezzi, non si guarda in faccia a nessuno.
Il maremoto si assesta, si ricomincia a veleggiare per acque più calme? Ma assolutamente no. Perché c’è ancora quella transizione di cui sopra da completare, e a Davide Casaleggio non è che piaccia poi così tanto. Settimane di stilettate e sguardi in cagnesco, la truppa parlamentare ribolle contro il figlio dell’ex guru, lui ha capito l’antifona, la democristianizzazione del vaffa, si mette addirittura in testa di fare politica, di promuovere una linea alternativa, così viene additato da chi lo accusa, come se fino a un momento prima fosse stato un apicultore e non una delle principali eminenze del partito di maggioranza relativa. E insomma iniziano a volare sganassoni, si comincia a parlare di ricorsi e di tribunali - perché alla fin fine sempre lì vanno a parare i casini M5s - e per due mesi si va avanti così, fino a perdersi un altro pezzo per strada. Incredibilmente è il brand Casaleggio e il suo Rousseau, un brand e una caratterizzazione che sembrava indissolubile dalla storia del Movimento, e che invece se ne va così come nulla fosse, vittima dell’accartocciamento su sé stesso di un partito che dopo essere andato al potere e dopo averne perso un robusto pezzo non sa più cosa dire né cosa dare alle masse festanti che lo avevano incoronato.
Ecco c’è quel problema lì, che dopo lo Tsunami tour, l’assemblearismo gruppettaro, l’opposizione, il governo, la Lega, il Pd, dopo tutto questo che si dice al 33% del vaffa, su quali parole d’ordine torneremo a chiedere il voto? Ci pensa Conte, ovviamente, che si mette a scrivere uno statuto del quale non si sa nulla per mesi, una via di mezzo tra una Divina Commedia burocratica e il quarto mistero di Fatima. E forse faceva bene a tenerlo segreto, quel malloppo di 40 pagine, perché quando lo spedisce a Grillo per il si stampi il fondatore dà di matto, si sente messo da parte, dice all’ex avvocato del popolo che non ha il quid, che “non può risolvere i problemi e non ha visione politica”, l’altro che ribatte che “ha scelto di fare il padre padrone”. È l’alba del patatrac - si rispolverano i tribunali, of course - ma quel sole non sorge mai, perché l’unfit to lead diventa improvvisamente il demiurgo di tutti i problemi, scoppia una pace tossica. Tossica perché da dentro parte lo stillicidio contro il nuovo capo. Conte decide di non decidere, si attira strali e maldicenze, il Movimento ribolle sul nulla di cui si ritrova fatto, improvvisamente nomina cinque vicepresidenti a sua immagine e somiglianza, si attira ancora più strali, poi fa un’altra infornata di nomine pressoché inutili, più di ottanta persone con galloni di latta, una moderna via Pal con più generali che soldati semplici. In un equilibro precarissimo si scavalla l’ostacolo dell’elezione del presidente della Repubblica, e tutti a tirare un sospiro di sollievo. Che si strozza in gola perché ecco la disfida di Di Maio, le correnti e gli agenti esterni, ancora secchiate di veleno a intorbidire pozzi già guasti, e la resa dei conti all’orizzonte. Ma tutto è rimandato, perché il giudice a Belino dice che Conte non è legittimato a stare dove sta, e il resto è storia dei nostri giorni, con la mesta discesa di Grillo a Roma in veste di protocollatore di carte bollate.
Ci voleva Draghi, dunque, collante per un giorno della rabbia grillina, a compattare un Movimento allo sbando, che da quando è stato disarcionato da Palazzo Chigi non ne indovina più una, secondo l’antico adagio che il potere logora chi non ce l’ha. O almeno, in questo caso, chi non ne ha abbastanza.