di Fabio Insenga

Quando mancano le idee, le proposte e i programmi, in genere si ripiega sui nomi di peso. Se, poi, a un'elezione si arriva nel pieno di una crisi di sistema, con una guerra per bande che lascia poco spazio alle soluzioni reali, l'ipotesi che quei nomi vengano tirati per la giacca, strumentalizzati e all'occorrenza sacrificati, diventa più probabile. Bruciare candidati illustri, del resto, è diventato uno sport nazionale. È successo per la corsa al Quirinale, dallo storico precedente dei 101 traditori di Romano Prodi alla presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati, immolata come candidato di bandiera del centrodestra. E la Lega Serie A, centro di potere litigioso e frammentato, potrebbe non essere da meno.

In ballo per la presidenza c'è ancora il numero uno di Confindustria, Carlo Bonomi, non proprio l'ultimo arrivato. Potrebbe rientrare in corsa la prossima settimana, quando si tornerà a riunire l'assemblea elettiva per la terza votazione, questa volta con un quorum abbassato a 11 preferenze su 20. Ma il segnale arrivato durante l'ultima votazione, mentre lui era irraggiungibile in vacanza alle Maldive, descrive bene il clima e le condizioni dell'industria calcio, che vive una profonda crisi strutturale, insieme finanziaria e istituzionale. Le 19 schede bianche pesano sicuramente meno dell'unica scheda con il nome di Bonomi, un segnale che in molti leggono come il tentativo di bruciare definitivamente una candidatura ingombrante.

A prescindere dall'esito finale, è interessante cercare di capire come si è arrivati a pensare a Bonomi, chi lo appoggia e chi lo osteggia, e soprattutto perché la Lega e l'industria calcio sono ridotte in queste condizioni. L'indicazione del presidente di Confindustria nasce da un'esigenza che è anche un'ammissione di responsabilità e di inadeguatezza. Alla Lega, ha pensato il fronte delle grandi guidato da Andrea Agnelli, Beppe Marotta e Paolo Scaroni (nell'ordine che si preferisce, sono gli stessi che hanno tentato lo strappo con la SuperLega), serve un presidente capace di rappresentare il mondo del calcio a livello istituzionale e, soprattutto, di trattare con il governo Draghi per i ristori che le società ritengono siano dovuti viste le perdite imposte dalla pandemia. E qui si annida il primo equivoco. Le perdite ci sono state, e anche evidenti, ma la richiesta di aiuto sembra ormai fuori tempo massimo. Le condizioni di contesto sono in rapida evoluzione, la crisi energetica impone sostegno a imprese e famiglie, il governo non ha più intenzione di ricorrere a scostamenti di bilancio. Ma non solo. C'è anche una valutazione che deriva dal metodo e dalla 'dottrina' Draghi: vanno sostenute le industrie capaci di innovare e di trasformarsi e non le industrie decotte, che trascinano problemi strutturali senza una visione sostenibile del proprio futuro.

Guardare nel fronte anti-Bonomi aiuta a capire una parte consistente dei problemi della Lega Serie A. Claudio Lotito e Aurelio De Laurentiis, patron di Lazio e Napoli, oltre a puntare su un candidato diverso (si è fatto il nome di Lorenzo Casini, capo di Gabinetto del ministro della Cultura Dario Franceschini e presidente della Corte d'appello federale), sono in aperta contestazione con la Figc. Mettono insieme una concezione padronale, e spesso fumettistica soprattutto nel caso di Lotito, delle società di calcio e degli organismi che devono rappresentarle. Sono a favore delle multiproprietà e contro la mutualità verso le serie inferiori, al punto da teorizzare l'uscita della Serie A dalla Federazione. La Figc, per altro, ha nominato il professore di diritto amministrativo Gennaro Terracciano commissario ad acta per adeguare lo statuto della Lega di A, con un mandato a partire dal 26 febbraio, e con scadenza il 15 marzo. C'è ancora spazio, quindi, per adeguarsi autonomamente ai principi di governance richiesti dal Consiglio federale. Ma non è affatto scontato che la Lega ci riesca, viste le condizioni. Le stesse condizioni che hanno portato il primo febbraio alle dimissioni di Paolo Dal Pino, sostanzialmente esautorato dalla carica di presidente e impossibilitato a fare qualsiasi mossa per l'opposizione delle società.

I contrasti restano forti e le lacerazioni vengono da lontano. Un'inchiesta di Repubblica, 'Novantesimo minuto', ha recentemente passato al setaccio tutti i problemi del sistema calcio, ormai vicino al crac. Il quadro complessivo è quello di un'industria abituata a vivere sopra le proprie possibilità, che tenta di sottrarsi a una inevitabile, profonda, ristrutturazione cercando una serie di scorciatoie. Il tema, da un punto di vista economico, è banale. I costi aumentano e i ricavi calano, innescando quel percorso che con una rapida discesa porta al fallimento. Tra gli ultimi mesi del campionato 2019/20 e quello 2020/21 la Serie A, stando a un report di Pwc, ha perso 302 mln. A cui ne vanno aggiunti altri 62 a causa delle chiusure di questa stagione.

Altra voce disastrosa è quella legata alle intermediazioni nelle compravendite dei giocatori, con i procuratori che hanno continuato ad arricchirsi ai danni delle società. La Fifa sta ragionando su una soglia massima per contenere le commissioni, che potrebbe essere fissata al 6 per cento, o al 10 per cento nell'ipotesi più morbida, sul volume complessivo di ogni affare, tenendo conto di costo del cartellino e ingaggio del calciatore. Un buco nero anche quello dei diritti tv. Gli introiti di una volta, quelli della corsa al rialzo dovuta alla concorrenza Sky-Mediaset-Rai, non esistono più. La contromisura a cui si pensa è la creazione di un canale dedicato della Lega, che possa produrre e distribuire in proprio le immagini del campionato a partire dal 2024. Per non parlare poi del capitolo stadi. Quelli di proprietà, unica formula in grado di mettere al sicuro le società da un punto di vista patrimoniale, in serie A sono quattro: Allianz Stadium (Juventus), Mapei Stadium (Sassuolo), Gewiss Arena (Atalanta), Dacia Arena (Udinese). Basta guardare ai tre principali campionati europei per capire quale sia il ritardo accumulato. In Bundesliga sono 16 su 18, in Premier League 17 su 20, nella Liga 11 su 20.

Per evitare che il cortocircuito innescato porti alla rovina del sistema calcio, sarebbe necessario fare piani industriali sostenibili, rivedere la struttura dei costi e lavorare per cercare nuove fonti di ricavi. Invece, si campa di espedienti, come le plusvalenze sempre più spesso gonfiate o addirittura fittizie. Ci sono due Procure, Milano e Torino, che stanno indagando e difficilmente le società coinvolte potranno uscirne indenni. Quando le alchimie contabili non bastano, o non si possono più fare con la stessa disinvoltura di prima, restano solo due strade percorribili: immettere denaro nuovo nelle società, e quindi ricapitalizzare, o continuare a indebitarsi. Sono ancora i numeri a dare il senso delle cose. Gli azionisti dei club di Serie A hanno ricapitalizzato per oltre un miliardo dopo la pandemia: 400 milioni la Juve, 335 la Roma, 130 il Milan, 75 l'Inter. L'indebitamento ha toccato nel 2020 i cinque miliardi. La stagione 2020/21 ha chiuso con un miliardo e 400 milioni di euro di perdita.

In questo scenario, con Carlo Bonomi alla presidenza o senza, come preferirebbero anche in Confindustria dove le perplessità per la candidatura rischiano di diventare aperto dissenso in caso di elezione, la Lega Serie A dovrebbe interrogarsi soprattutto sugli errori fatti, sui numeri reali, e sui rischi concreti che derivano dalla pessima gestione dell'industria calcio.