Giorgia Meloni (foto depositphotos)

DI GIANFRANCO ROTONDI

Oggi su Repubblica c'è un Casini da manuale: un tempo la sua l'avremmo definita 'un'intervista di scenario', ma in questo caso la scena è quella cruda e angosciante della guerra.
Al posto delle solite banalità pacifiste, Casini mette in fila una serie di ovvietà scomode: primo, che su Putin molti si sono illusi, non è uno di noi, nel senso di occidentale e democratico. Non lo è mai stato. Secondo, che l'Occidente si è risvegliato da un letargo pericoloso, in fondo al quale c'è oggi la lucida percezione di una civiltà a rischio. Terzo, che la scelta atlantista è faticosa, costosa, rischiosa ma non ce ne è un'altra.

Con levità democristiana (ma nemmeno troppa), il non più giovane Pier stila una sorta di pagellina della politica italiana: ne ha per la solita sinistra antiamericana, a cui dedica uno spietato parallelo con il celebre motto 'né con lo Stato, né con le Brigate rosse'; ne ha pure per il centrodestra, dove Casini contrappone la chiarezza atlantista di Meloni a qualche ambiguità di Salvini, al netto delle disavventure mediatiche fuori patria, sulle quali speculano gli anti salviniani viscerali.

Ma parliamo un po' del centrodestra. Covid e guerra lo hanno archiviato come 'nueva mayoria', avrebbe detto Aznar, che vinse le sue prime elezioni spagnole sventolando i sondaggi che lo davano prevalente. Prima della pandemia il centrodestra italiano era la maggioranza virtuale, nei sondaggi e nelle previsioni di palazzo. Numericamente lo è ancora. Ma non è una coalizione, e non solo per la circostanza - già imbarazzante - di trovarsi metà al governo e metà all'opposizione. Il centrodestra non è una coalizione perché non ha un programma che non sia il riflesso condizionato di qualche battaglia storica, come il no alla riforma del catasto. Persino sui referendum e sulla giustizia si registrano cento sfumature di grigio, figuriamoci su tutto il resto.

Poi c'è la questione della leadership: dire che la decideranno gli elettori non funziona più. Gli italiani votano per avere un buon governo, non per celebrare le primarie del centrodestra. Paradossalmente la competizione interna al centrodestra potrebbe reggere solo con una legge elettorale proporzionale che rinviasse le alleanze a dopo le elezioni; con una legge maggioritaria, i cittadini esigono di sapere prima del voto quale è il programma della coalizione, e a chi sarà affidata la sua gestione di governo.

Infine, pesa il sospetto che le due finte coalizioni giochino una partita elettorale più finta di loro, ossia si scontrino per dividersi i seggi, ben sapendo che questa legge elettorale non assegnerà la vittoria a nessuna delle due, e dunque si imporrà un nuovo governo di coalizione delle mezze ali.

La guerra è entrata poi come una lama affilata nelle carni flaccide del centrodestra: il putinismo passato di una parte della coalizione è arrivato come un conto salato e inevitabile. È Casini stesso a donare una pillola di ottimismo al centrodestra: Meloni ha assunto una linea atlantista e filo-occidentale, senza se e senza ma, un po' come è nello stile della leader della destra. Il resto della coalizione come pensa di rapportarsi a questa leader che allo stato è prima nei sondaggi? Non può più considerarla una parente scomoda, o un'alleata elettorale necessaria, anche perché non è affatto detto che lei rimarrà tale alle prossime elezioni.

Forse sarebbe il caso di verificare non tanto la facile unità del centrodestra alle elezioni amministrative, ma la difficile risposta alla domanda se esso sia ancora pensabile come una coalizione, e chi possa credibilmente guidarla.