di Claudio Paudice

Per capire il reale impatto del quinto pacchetto di sanzioni adottato da Bruxelles contro Mosca bastano i numeri che seguono: da quando è iniziata l'invasione dell'Ucraina il 24 febbraio scorso, nelle casse di Vladimir Putin sono affluiti nove miliardi di euro per la vendita di petrolio all'Ue, altri nove miliardi e mezzo per la vendita all'Ue di gas naturale, e solo 700 milioni per la vendita di carbone, secondo i dati di Europe Beyond Coal. Detta diversamente, nei quaranta giorni di conflitto ucraino, su un totale di quasi venti miliardi pagati dai ventisette Paesi membri a Vladimir Putin per la fornitura di fonti fossili, il carbone rappresenta un misero 3,5%. Oggi la presidente Ursula von der Leyen ha annunciato l'introduzione dell'embargo sul carbone russo per "tagliare un'altra importante fonte di entrate per la Russia". La scarsa efficacia dei quattro pacchetti di azioni ritorsive adottate fino ad oggi ha indotto la Commissione a riflettere sulla necessità di colpire l'export di fonti energetiche del Cremlino. Dalle sue esportazioni Mosca infatti ricava ingenti introiti in valuta forte che le consentono di aggirare buona parte delle sanzioni, a partire dal congelamento di metà delle sue riserve valutarie per circa 330 miliardi di dollari. Secondo il think tank Bruegel, si stima che ogni giorno i Paesi europei paghino fino a 700 milioni alla Russia per acquistare il suo petrolio e i prodotti raffinati, e altri 400 milioni per il suo gas. Un bottino al quale Putin può attingere per finanziare la guerra, ridurre l'impatto finanziario delle sanzioni, ripagare i titoli di debito e le cedole in scadenza, sostenere il rublo, dirottare alle sue imprese che importano dall'estero e necessitano di valuta forte. Col passare dei giorni, Bruxelles ha compreso che senza colpire le esportazioni energetiche l'impatto delle sue azioni contro il Cremlino è destinato a produrre scarsi risultati nel breve termine, mentre la guerra e i massacri sul suolo ucraino proseguono, come dimostra la barbarie compiuta a Bucha dai soldati russi sui civili. Eppure le sue mani sono legate non tanto da Putin quanto da almeno un decennio di sottovalutazione che ha reso il vecchio continente completamente indifeso in alcune filiere strategiche.

Se l'ipotesi di un embargo sul gas russo non è mai stata realmente sul tavolo, è tramontata anche l'idea di colpire il greggio di Mosca. L'Ue dipende dalla Russia per circa il 45% delle sue importazioni di gas, per circa il 25% delle sue importazioni di petrolio. E per circa il 45% delle sue importazioni di carbone. I Paesi più esposti sono la Germania, la Polonia e i Paesi Bassi: nel 2021, secondo i dati di UN Comtrade Database, Berlino ha speso due miliardi e mezzo per il carbone russo, Varsavia circa un miliardo e mezzo e Amsterdam circa un miliardo. L'Italia,  per dire, ha speso poco meno di settecento miiloni di euro. Nel complesso, ha stimato la Commissione Europea, l'embargo sul carbone avrà un impatto sulle casse russe di circa quattro miliardi all'anno. Probabilmente l'impatto sarà maggiore, visto che l'anno scorso l'import pari a quasi il doppio. Ma cambia poco, è pur sempre una cifra irrisoria: secondo Bloomberg Economics, i ricavi dalle esportazioni di energia di Mosca per quest'anno potrebbero superare i 320 miliardi, più di un terzo rispetto al 2021, portando così l'avanzo delle partite correnti per il 2022 fino a 240 miliardi di dollari. Improbabile quindi che l'embargo introdotto da Bruxelles possa realmente scalfire l'economia russa, visto che i veri introiti derivano non tanto dal carbone quanto da gas&oil.

Perché quindi colpirlo? Sicuramente per la facilità di arrivare a un accordo tra tutti i Ventisette. Al di là delle economie più grandi, il valore delle importazioni per gran parte degli Stati membri è poca cosa. La Grecia ha speso quaranta milioni nel 2021, l'Estonia due milioni, l'Austria meno di duecento milioni (contro i tre miliardi per il gas russo), la Bulgaria 130 milioni (contro i tre miliardi per il greggio e il miliardo per il gas), la Croazia 70 milioni, la Danimarca dodici come l'Irlanda, il Portogallo nove milioni. La quota di export di carbone che la Russia - terzo esportatore al mondo dopo Indonesia e Australia - ha riservato all'Europa è stata di circa il 30% sul totale esportato, ma solo Germania, Paesi Bassi, Polonia e Turchia insieme rappresentano il 24%. Più facile da digerire per tutti quindi un embargo, diversamente dal gas. Inoltre, rispetto al metano e al greggio, il carbone russo si può teoricamente sostituire con più facilità. O attraverso altri fornitori oggi assenti sul mercato europeo o aumentando la produzione interna che nel corso degli anni è andata calando per ridurre costantemente le emissioni inquinanti. Il ministro dell'Economia della Germania Habeck lo ha già detto: "La produzione domestica di carbone dovrà aumentare". Restano però le incognite sul prezzo che, come quello di tutte le materie prime, è ormai da quasi un anno in costante ascesa. Oggi una tonnellata di carbone termico sui mercati europei è arrivata a costare oltre i 270 dollari per tonnellata.

Oltre al prezzo del carbone è atteso salire anche quello dell'acciaio. Bisogna infatti distinguere tra carbone termico, impiegato nella produzione di energia elettrica, e metallurgico, per produrre ferro e acciaio. Quest'ultimo, secondo il Bruegel, tra il 20% e il 30% delle importazioni di carbone dell'Ue, mentre la quota russa delle importazioni di carbone termico è quasi il 70%. Come sempre in tempi di crisi c'è anche chi ci guadagna, e solitamente non è l'Ue: secondo un rapporto del governo, le esportazioni di carbone dall'Australia raggiungeranno quest'anno la cifra record di 75 miliardi di euro dopo che i prezzi per quello metallurgico hanno raggiunto "massimi storici" in seguito all'invasione russa dell'Ucraina. Nettamente in aumento anche i prezzi del carbone termico, sull'onda della domanda cinese - riferisce il rapporto trimestrale Resource and Energy del governo federale. L'Australia è la maggiore esportatrice mondiale di carbone metallurgico e la seconda per il carbone termico. "I mercati del carbone termico stanno attraversando una transizione complessa, i prezzi sono saliti nei mesi recenti mentre la domanda ha superato l'offerta, e rimane nettamente ridotta quella di diversi grandi esportatori", spiega il report.

Uno stop immediato alle importazioni di gas e petrolio da Mosca non è fattibile a meno che non si voglia andare incontro a una profonda recessione economica. Vorrebbe dire non soltanto abbassare i termostati di un grado o, come detto dalla Commissaria all'Antitrust Vestager, usare meno acqua calda sotto la doccia, ma piuttosto bloccare la produzione industriale in diversi settori, creare quindi disoccupazione e portare al fallimento piccole e medie imprese. Eppure, secondo il Bruegel, anche il piano Ue ridurre gradualmente la propria dipendenza energetica dalla Russia potrebbe risultare inefficace: "C'è il rischio che questa strategia faccia salire ulteriormente i prezzi compensando eccessivamente la Russia per la perdita di volumi". In altre parole, affrancandosi lentamente dalle forniture di gas, petrolio e carbone di Mosca potrebbe - e già sta succedendo in queste settimane - far aumentare i prezzi così tanto da coprire i mancati introiti per le vendite inferiori. Già prima dell'invasione si calcolava che il bilancio federale russo - che è quello di un PetroStato, essendo dipendente quasi interamente dal suo export energetico - fosse in pareggio con un prezzo del barile di petrolio a 44 dollari. Oggi è oltre i 100. Il prezzo del gas è da mesi su livelli insostenibili, oggi è sopra i 105 euro a megawattora.

Una strategia lose-lose che servirà a poco, di certo non servirà a indurre Vladimir Putin a ritirarsi dall'Ucraina. Anzi, potrebbe addirittura accrescere i danni che l'economia europea già sta patendo come effetto di ritorno delle sue stesse sanzioni. Oggi Berlino ha fatto un tardivo mea culpa: "È stato un errore da parte della Germania diventare così dipendente dalle importazioni di energia dalla Russia", ha detto il ministro delle Finanze tedesco, Christian Lindner, alla fine dell'Ecofin, sottolineando che "la politica tedesca del passato sulla Russia deve essere messa in discussione in modo critico".  Nei sedici anni di governo Merkel, la Germania ha guidato l'Europa sempre di più nelle braccia del Cremlino, incrementando la dipendenza energetica invece di ridurla nonostante gli avvertimenti che Bruxelles già lanciava nell'anno 2000 invitando i Paesi membri a diversificare fonti e fornitori. Per tutta risposta Berlino ha costruito non uno ma ben due gasdotti che collegano direttamente la Germania alla Russia attraverso il mar Baltico (il secondo, il Nord Stream II, non è entrato in funzione a causa della guerra).

All'embargo sul gas Bruxelles ha aggiunto anche altre sanzioni: viene introdotto il divieto d'accesso in Ue per le navi e i tir della Russia e della Bielorussia, tuttavia con alcune eccezioni riguardanti il trasporto di prodotti alimentari, aiuti umanitari e energia. Poco importa perché il Cremlino ha già annunciato che da ora in poi sarà "più prudente" nelle esportazioni di cibo "specialmente verso i Paesi ostili", prefigurando così limitazioni all'export alimentare. Secondo il presidente ucraino Zelensky Putin vuole innescare una "crisi alimentare globale".

Nel quinto pacchetto di sanzioni faranno parte anche sanzioni bancarie più aspre rivolte a 4 delle 7 banche già escluse da Swift, il divieto di 10 miliardi di euro di esportazioni di apparecchiature e componenti industriali cruciali, come i semiconduttori avanzati e computer quantistici. Come spiega il Bruegel, la Russia dipende fortemente dalle importazioni di beni high-tech per un valore di circa 20 miliardi, di cui circa il 45% dall'Unione Europea. In questo settore il danno si farà sentire, perché alcune forniture europee e americane non sono facili da rimpiazzare. Ma ci vorrà tempo prima che l'economia russa nel suo complesso accusi il colpo. Molto di più di quanto ne serve all'Ue per comprendere gli effetti potenzialmente catastrofici della crisi energetica in cui è piombata.