di Mattia Feltri

Alla ricerca della complessità, il dibattito offre semplificazioni particolarmente sbrigative: il bipolarismo del momento, coltivato da alcuni capipartito e da alcuni giornali, è fra i sostenitori delle armi e i sostenitori dei negoziati, detti anche, sempre a maggior gloria della complessità, guerrafondai e pacifisti, entrambi da salotto. Noi di Huffpost – ma non ci definiremmo una pianta nel deserto – incontreremmo qualche difficoltà a iscriverci a uno schieramento o all’altro, siccome pensiamo che non ci possa essere negoziato senza armi, e le armi siano indispensabili per arrivare al negoziato. Altrimenti, ma è pure umiliante proporre argomentazioni così elementari, oltre i limiti dell’ovvietà, il negoziato è sulle condizioni della resa, con il cedimento per fiacchezza anche morale alle ragioni della forza.

Oggi Vladimir Putin non è messo benissimo, non ha conquistato l’Ucraina né in tre giorni né in trenta né in sessanta, è dovuto retrocedere da Kiev, le truppe non paiono pervase d’entusiasmo, per quanto ne potessero avere all’inizio, e il discorso di undici minutitenuto lunedì mattina sulla Piazza Rossa, nell’anniversario della vittoria sul nazismo, è stato ambiguo. Non ha lasciato intuire molti passi indietro ma tantomeno passi in avanti, e ha indotto Emmanuel Macron a sollecitare una tregua, ovvero il presupposto dei negoziati. Non è facile indovinare che passi per la testa di Macron (i sostenitori della trattativa senza armi dovrebbero conoscere la delicatezza dell’arte della diplomazia: le parole vanno lette e soppesate, non interpretate lì per lì secondo dove porta il cuore), improbabile immaginasse davvero una tregua immediata, più plausibile ne intraveda i prodromi e prepari il terreno. E del resto poche ore prima aveva cercato di rassicurare Putin sulla volontà europea di non infierire sullo sconfitto. Appunto: sconfitto. Dopo la vittoria ucraina, ha detto Macron, e soltanto dopo la vittoria, bisognerà essere abbastanza saggi da non umiliare la Russia.

Argomenti non dissimili sono stati spesi ieri da Mario Draghi a colloquio con Joe Biden, a rimarcare l’unico punto di divergenza fra europei e americani, noi più verbalmente cauti e attenti a ogni segnale di distensione, loro molto più assertivi e aggressivi. Secondo Biden non ci sono problemi, ma quella di Macron e Draghi è illusione, poiché Putin a tutto pensa fuorché a sedersi e contrattare, e necessita perlomeno di una buona lezione. Non so chi abbia ragione, ma da qualche tempo qui su Huffpost scriviamo, sperando di pigliarci, che a Putin vada sempre lasciata intravedere una possibilità di fuga, perché la belva più pericolosa è quella ferita e in trappola. E perché è temerario anche soltanto immaginare la progettazione di un cambio di regime: non ci siamo riusciti in Libia, figuriamoci in un paese sterminato e orgoglioso come la Russia.

Non si tratta, come piace pensare ai bipolaristi per sempre, di scegliere fra l’Europa e gli Stati Uniti, o fra l’Europa e la Nato. Si tratta, lo diciamo da molto prima della guerra, di edificare un’Europa che perduta la centralità plurisecolare sappia darsi un ruolo in un mondo che ha spostato il baricentro nel Pacifico, e per darselo deve dotarsi di una politica estera e di un esercito, e dunque di andare oltre il club economico e commerciale di cui ha parlato ieri Joe Biden, magari con una licenza ironica. Sarebbe utile a tutti un’Europa forte e autonoma, dentro la Nato e non a rimorchio. Ci vorrà tempo, e parecchio, ma Macron e Draghi ci stanno provando intanto che provano a preservarla dalla guerra, senza cedimenti all’aggressore e senza puntargli la pistola alla fronte. Non sappiamo se funzionerà, ma ci sembra la strada migliore per la pace.