di ALESSANDRO DE ANGELIS

Certo, se Giuseppe Conte, per ogni volta che ha invocato Draghi in Aula, fosse andato a Montecitorio per incontrare, discutere, salutare i suoi, magari lì dentro non servirebbe il bromuro per i nervi. E invece, e le malelingue mormorano, è dai tempi del Quirinale che non si vede, perché preferisce semmai andare al Senato, a farsi coccolare dalla Taverna, Turco, Perilli, quelli che gli dicono sempre sì. Vecchia storia, partito che vai, cerchio magico che trovi. Ma fosse questo il problema. Qualche chiacchierata nei Palazzi, ed ecco la cronaca di una implosione annunciata (anzi, già in corso).

Innanzitutto, la voglia di andare al voto dell’avvocato del popolo (più facile a dirsi che a farsi). Per due motivi, che con l’anelito pacifista non c’entrano nulla. Il primo è la tornata di “nomine” della prossima primavera: Eni, Enel, Poste, Leonardo, Terna. Una grande abbuffata, che solletica le papille gustative di chi ha subito il digiuno dell’era Draghi su Ferrovie, Cdp, Anas, Mps, Fincantieri e pure Rai. Mica solo dei Cinque stelle, che al governo hanno scoperto i fasti del potere e hanno il problema, quando sarà di tornarci. Di tutti. Però l’idea è di giocare un po’ sul clima di rivincita della politica, che prima o poi monterà contro coloro che “non ci fanno toccare palla”, eccetera.

Secondo, la Sicilia a ottobre. Conte sta già mettendo le mani avanti sulla sconfitta alle amministrative di giugno. Solito ritornello: storicamente abbiamo avuto difficoltà nelle elezioni locali, sono arrivato da poco, ci vuole tempo. Però andare male nell’Isola dove alle politiche i Cinque stelle presero quasi il cinquanta per cento può avere effetti deflagranti. Col dieci in Sicilia, significa che sei sotto la doppia cifra su scala nazionale, e “allacciate le cinture”. In un partito normale, qualcuno chiederebbe un congresso, da quelle parti il rischio è di un putiferio e basta. Occhio a Luigi Di Maio che già una volta, dopo il Quirinale, chiese un “chiarimento” e da quel momento, al di là delle frasi di circostanza, i suoi rapporti con Conte sono al minimo storico. È chiaro che lo aspetta lì, al varco. Non che ci sia da attendersi una mossa demiurgica di Beppe Grillo, il più furbo di tutti: è anche riuscito a farsi pagare dal Movimento che ha fondato per fare sul blog campagna filo russa. Però, è inevitabile, che il quadro, in caso di debacle, è destinato a non reggere.

Prevenire è meglio che curare, ma il difetto di Conte è che non conosce la prevenzione, il tempismo. Come ai tempi di palazzo Chigi è un professionista del rinvio: dove c’è il problema, prende tempo. Rinvia, ma non delega. Così in Sicilia. Chiedete a Giancarlo Cancellieri, che, consapevole del problema, non sa più che fare. È uno forte, che da membro del comitato di garanzia si schierò con Conte rompendo con Grillo, però non ha ricevuto ancora il mandato per affrontare il dossier. Né se ne occupa l’avvocato che, non si capisce perché, va solo in Campania, abbandonando i territori a loro stessi. Anzi si capisce il perché: da un lato gli piace riempire le sale a casa di Di Maio, per una questione di rivalità personale. Un’ossessione. Dall’altro ama giocare facile, perché la Campania e la Puglia sono gli unici posti dove non si rischiano le sale semivuote, tipo Veneto o Lombardia.

Di Maio, dunque, aspetta. Non ha fretta. E investe sul posizionamento politico: atlantico, affidabile, di governo. Non è messo male: può giocare una partita nel Movimento, può partecipare volendo alla nascita di qualcosa di moderato alleato del Pd, potrebbe anche permettersi, vista la sua rete di relazioni, di far finta di fare un passo indietro per poi farne uno avanti dopo il voto. Il ragazzo è cresciuto. E in fondo anche l’altro giovane promettente dei tempi che furono è messo bene. Ci risiamo col tormentone sul “ritorno di Di Battista” (non chiamatelo Dibba, che si arrabbia). Aspetta anche lui, e spera che si compia il percorso di ritorno all’opposizione, per tornare a nuova giovinezza nella prossima campagna elettorale. Conte lo rivuole dentro, l’intesa sulla guerra è perfetta, lo cerca periodicamente, vede in lui un elisir di consenso, la base lo ama. Chissà se il calcolo funziona, perché poi, dopo che sei stato al governo con questo, con quello, con tutti, è pure complicato tornare a presentarti come nuovo, la gente non è mica fessa.

Sia come sia, col proporzionale sarebbe cosa fatta. Il problema è l’alleanza col Pd. Perché Di Battista e il Pd sono inconciliabili. In questo, onore alla coerenza. Comunque nessuno immagina che starà fermo al prossimo giro. Anzi c’è anche chi prevede la nascita di un suo movimento assieme al professor Alessandro Orsini, sai che spasso: la coppia del martedì sera che scende in campo. Potere dei talk.

Parliamoci chiaro, l’elemento di forza di Conte al momento sono le liste – il potere di farle – però è anche, sul lungo periodo, il maggior elemento di debolezza. Si fa presto a dire liste. Ma poi: in Piemonte è capolista la Castelli o la Appendino? In Sardegna, dove ne eleggi uno solo la Todde o Licheri? E la tenzone tra Dino Giarrusso e Cancelleri in Sicilia? Gira anche voce che si voglia candidare Casalino, che dalla sua non ha il problema del doppio mandato. È il vero rompicapo perché tutti i cosiddetti big ce l’hanno. Rinviato anche questo problema. L’idea di Conte è di trovare un compromesso e far votare gli iscritti. Attenzione, che l’hanno capito bene quanto l’elezione rappresenti un ascensore sociale: ne hanno visti di Carneadi diventare ministri. Lo spirito anticasta come nemesi finale. Mica male.