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di James Hansen

La ripetuta ammonizione biblica di “Dare a Cesare quel che è di Cesare”—nei Vangeli secondo Matteo (22,21), secondo Marco (12,17) e secondo Luca (20,25)—permette di configurare l’evasione fiscale come peccato e gli evasori dunque come ‘peccatori’. L’obbligo di “dire” a Cesare, segnalando dettagliatamente da dove vengono i nostri soldi e dove vanno poi, è invece un’invenzione molto recente, senza antecedenti altrettanto nobili. Mancare a quell’obbligo per ora è un crimine, ma non un peccato... L’Italia è stata tra i primi paesi al mondo a inventare il reato di riciclaggio, nel 1978, in risposta all’ondata di sequestri di persona in quegli anni, punendo, secondo gli atti parlamentari, “...il supporto che costantemente reca al conseguimento del profitto nei sequestri per estorsione”. Il Congresso americano è arrivato solo nel 1986 ad approvare una legge che punisce il “money laundering”.

L’attività in sé—non ancora un crimine—è antica. Già ai tempi della Roma repubblicana, il cittadino che aveva sentore di un suo prossimo inserimento come “nemico di Roma” nelle liste di proscrizione previste dalle leggi sillane dell’82 a.C. sapeva che i propri beni sarebbero stati presto confiscati. Non gli restava che sbarazzarsene in fretta, prima della proscriptio, monetizzandoli nella speranza di vivere almeno un esilio dorato.

L’attesa millenaria per criminalizzare il passaggio di soldi senza documentazione è dipesa da un problema ‘tecnico’: non c’era modo di farlo. Occorreva un sistema bancario unitario se non unificato e, idealmente, una maniera per identificare con precisione la ricchezza d’interesse. Le monete erano anonime, assegni e bonifici invece no.

Il nuovo strumento di legge, inizialmente inteso a combattere il crimine violento, è stato rapidamente esteso a rendere ‘tracciabile’ ogni tipo di scambio commerciale, anche di valore modestissimo. Solo un paio di categorie—giornalai e tassisti, politicamente ‘intoccabili’—non sono ancora tenute a rilasciare scontrini fiscali. I lavoratori ancora parzialmente retribuiti con le mance—camerieri, facchini e altri— sono guardati con sospetto. Infatti, tutte le transazioni in contanti sono ormai sospette.

La tracciabilità pressoché totale è difendibile dal punto di vista dell’equità fiscale. La difficoltà nasce quando la piena conoscenza ‘statale’ degli acquisti e dei consumi diventa uno strumento di potere—e gli stati esistono per gestire il potere, impiegano gli strumenti che trovano.
Già spuntano—ora perlopiù solo al livello di ‘chiacchiera’—proposte per utilizzare i nuovi strumenti per condizionare gli acquisti di prodotti e servizi invisi a parti influenti dell’opinione pubblica, aprendo la strada a una sorta di proibizionismo ‘soft’. Se gli alcolici fanno male, perché non rendiamo impossibile l’acquisto di più di 50cc alla settimana? La gente insiste per mangiare carne rossa o zucchero bianco? Imponiamo allora una sorta di ‘disassuefazione’, limitando gradualmente la possibilità di comprarli... Quando Julian Assange fece inferocire il Governo americano dando ai giornali una gran massa di cablogrammi diplomatici riservati e, soprattutto, imbarazzanti, gli Usa imposero alle aziende di carte di credito di non permettere ai sostenitori dell’attivista australiano di trasmettergli i fondi per la difesa legale. “Cesare” utilizza i mezzi di cui dispone. Ora ne ha uno nuovo.