Nel cuore degli anni ’70 del Novecento avvenne in Italia l’inaudito: la condanna al rogo di un’opera d’arte e dunque la sua sparizione, un evento che riportava la società indietro nel tempo ad epoche buie (il nazismo) o molto lontane (il Medioevo).

Si trattava di un film, cui fu restituito l’onore e la circolazione solo nel 1987: Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci con Maria Schneider e Marlon Brando.

Il regista, l’attore e il produttore Alberto Grimaldi, furono condannati a quattro mesi di carcere con la condizionale e Bertolucci raccontò di essersi accorto di aver perso i diritti civili quando andò al seggio a votare e gli fu impedito.

Cosa c’era in Ultimo tango di così improponibile, invisibile, scandaloso? Secondo i cittadini che si sentirono offesi dalle immagini del film e che sporsero denuncia, si trattava di una forma di “pansessualismo fine a se stesso inteso a solleticare i deteriori istinti della libidine con crude ributtanti e veristiche rappresentazioni di congressi carnali anche innaturali…”.

Al di là del grottesco e occhiuto avvocatese, che però riflette anche un certo spirito dei tempi mentre la società italiana era percorsa da tensioni e forze contrastanti, progressiste e conservatrice, che si fronteggiavano, la denuncia mostra che la provocazione contenuta in Ultimo tango andava ben oltre il “pansessualismo” (che peraltro non occupa affatto la maggior parte del film) e investiva costumi e ipocrisie della società borghese di un paese in evoluzione.

In Ultimo tango c’è molto di più di una scena (o di un ‘congresso carnale’), al quale pure fu da allora in poi inchiodato per sempre nell’immaginario collettivo (la famigerata sequenza del burro): c’è la riformulazione possibile di un rapporto di coppia, per quanto eccentrico, la critica al patriarcato, la tensione amore-morte, il desiderio, la nostalgia, il confronto tra generazioni. Senza contare che tutto questo si trasforma e viene osservato attraverso il cinema (la cui storia è citatissima in vari modi e forma all’interno del film), che non sarà più come prima, in una Parigi ottocentesca e quasi disabitata, romantica e spoglia, immersa in una insolita luce arancione frutto del genio di Vittorio Storaro.