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di Massimo Adinolfi

Un’apocalisse, nel senso letterale del termine. Il distacco di un fronte di ghiaccio assai esteso, sulla Marmolada, porta con sé, insieme alla grave perdita di vite umane, anche un significato apocalittico, perché rivela quanto profondamente sia compromesso il nostro ecosistema. Come ha scritto Antonio Scurati sul Corriere, la valanga siamo noi; la valanga è l’uomo, il suo atteggiamento sconsiderato nei confronti della natura, l’impronta antropica ormai irreversibile che sconvolge gli equilibri ambientali. Ma segni di una possibile apocalisse si possono scorgere anche nel conflitto russo-ucraino, nella guerra più cruenta apertasi nel cuore dell’Europa dalla fine della seconda guerra mondiale, con il pericolo che un’eventuale escalation spinga la Russia all’impiego di armi nucleari, mentre l’interruzione di forniture di energia e materie prime mette a dura prova le nostre economie, e una crisi alimentare, dovuta alla mancata esportazione del grano ucraino, minaccia di provocare nel mondo una drammatica carestia. E intanto i casi di covid tornano ad aumentare, e la pandemia che credevano di esserci lasciata alle spalle getta la sua ombra – un’ombra apocalittica, non c’è alcun dubbio – su mesi e anni futuri: ci chiuderemo o no un’altra volta nelle nostre case, il salto intraspecifico compiuto dal virus non è un altro segno della fine del mondo, così come lo abbiamo conosciuto?

Può darsi, ma non sarebbe la prima volta. Non che il mondo finisca, beninteso, ma che si diffonda un’aria da fine di mondo. Benché non ne sapesse nulla di disastri ambientali e ordigni nucleari, John Donne agli inizi del Seicento affidava a versi bellissimi, pieni di poesia, la sua melanconica anatomia del mondo: il fuoco si è estinto, il sole è perduto, tutto è a pezzi e una generale infermità marcisce il cuore di ogni cosa. Non c’è quindi che un mezzo per non contrarre l’infezione che corrompe il mondo: non farne parte.

Poi l’Europa ebbe la guerra e la peste bubbonica: il Seicento non fu una passeggiata. Ma di testimonianze così se ne trovano molte, nella storia della civiltà: di fantasie apocalittiche e cupi millenarismi, fosche previsioni e sconsolati fatalismi. E non possiamo augurarcelo, certo, ma anche solo per un fatto statistico prima o poi magari ci prenderanno pure. Nel frattempo, però, è più interessante chiedersi di che altro tutte queste narrazioni della fine siano segno. Delle catastrofi prossime venture, d’accordo: ma quando succede che certe società comincino a denunciare settimanalmente, persino quotidianamente, il fatidico superamento del punto di non ritorno (e non sto facendo della facile ironia sui penultimatum grillini al governo, sia chiaro)?

A giudicare infatti dal tono apocalittico di recente adottato da buona parte della stampa italiana, pare proprio che l’orizzonte del cielo si sia definitivamente oscurato, prima di precipitare fragorosamente sulla terra: tra lo scioglimento dei ghiacciai, la siccità, la guerra, il rincaro delle materie prime e la recrudescenza della pandemia non abbiamo più scampo. E però, di solito, a pensarla così – che la fine è prossima, che la morte è vicina, che non c’è più speranza – sono società e nazioni sfiduciate, in declino, che proiettano sul globo intero i fantasmi delle proprie paure, la stanchezza delle proprie aspettative, l’inadeguatezza dei propri strumenti di comprensione.

Qualche anno fa il sociologo francese Dominique Moïsi ha dato alle stampe un fortunato saggio di geopolitica dove a disegnare le relazioni fra gli Stati, anzi a plasmarle, sono le emozioni. C’è una parte del mondo che vive nella paura di perdere il proprio status, spiegava Moïsi: è l’Occidente, siamo noi, che sublimiamo queste paure in una sensazione infinita di postumità: cosa non è già stato dichiarato finito? È finito il cinema, è finita la filosofia, è finita l’arte, è finito l’uomo. Ora sta finendo anche l’idillio con la natura, la felice ospitalità che ha finora potuto riservare alla nostra specie: siamo fritti. Ma in altre parti del mondo lo stato emotivo fondamentale non è la paura: è il risentimento, in quella parte del mondo che non guarda con simpatia all’Occidente e vuole anzi contestarne e rovesciarne l’egemonia. Ed è la speranza, in quella parte del mondo che comincia solo oggi a sperimentare condizioni di benessere, a stare un po’ meglio di prima e a confidare nel progresso.

Non so bene se queste fine analisi psico-politiche aiutino davvero a spiegare le relazioni internazionali: di sicuro possono aiutarci a relativizzare il nostro punto di vista, l’infiacchita sensazione che, siccome noi non ce la facciamo più, allora il mondo non ce la fa più.

Col che non si diminuisce in nulla la dimensione dei problemi reali, come fanno scioccamente i negazionisti di questo e di quello: il surriscaldamento globale è davvero un’emergenza drammatica; l’invasione in Ucraina cambia davvero la storia europea. E di covid ce n’è, anche se non siamo ancora con le terapie intensive piene. Ma che tutto questo prenda il tono della lamentazione e della rassegnazione suona piuttosto come un’autobiografia dei nostri anni recenti, piuttosto che come una radiografia dello stato di salute del pianeta Terra. Tutto ciò ha indubbiamente a che vedere con la fragilità della politica e  l’inconsistenza delle nostre classi dirigenti, ma credo anche con la distanza che una certa intellettualità ha ormai dai luoghi in cui davvero si prova a progettare il futuro. Che sbucherà fuori da qualche parte, in mezzo alle contrazioni dolorose del parto, non certo bell’e fatto, come Minerva dalla testa di Giove, ma come il frutto faticoso e ostinato di quegli uomini e di quelle società che non avranno rinunciato a pensarlo. E se nel frattempo mistici e flagellanti percorreranno le strade ricordando che la fine del mondo è vicina – o che il punto di non ritorno è stato superato, fa lo stesso -, io ruberò a Troisi la leggerezza di una sua battuta per assicurare loro che sì, senz’altro: mo’ me lo segno.