Palazzo Chigi, sede del governo (foto Depositphotos)

di Vincenzo Vitale

A sentire ciò che pensano e ciò che dicono in televisione o che dichiarano ai giornali i principali esponenti politici italiani, c’è da mettersi le mani ai capelli. Nell’ordine…

Carlo Calenda. Un illuso. Ha pensato bene di allearsi con Enrico Letta, ma non con Nicola Fratoianni e la sinistra estrema, perché – così ha dichiarato – porterà alla coalizione i voti degli elettori moderati.

Due osservazioni. La prima. È proprio sicuro Calenda di convincere i suoi elettori a votare per quella coalizione? Avrei molti dubbi in proposito, anche considerando gli ottimi risultati che la sua lista conseguì quando si candidò alle Comunali di Roma da sola, senza alleanze con nessuno. Da solo e soltanto da solo, Calenda toglie voti a tutto il centrodestra – forse anche a Fratelli d’Italia. In coalizione con la sinistra, non solo non li toglie, ma perde anche i propri.

La seconda. Chi crede che Calenda possa allearsi con Letta, senza allearsi con la sinistra estrema?

Nessuno. Non basta infatti impedire che i candidati della sinistra si presentino nei collegi uninominali, perché anche i semplici voti di lista, sia pure indirettamente, vanno a vantaggio di tutte le altre liste collegate, anche di quelle di estrema sinistra. E gli elettori non sono scemi.

Enrico Letta. Un martire, ma non all’altezza della situazione. Schiacciato dai veti incrociati di moderati ed estremisti, non sa a che santo votarsi. Stringe un patto con Calenda e gli altri protestano. Ascolta questi e Calenda protesta. Una cosa è certa: egli non ha una linea propria dal punto di vista strettamente politico. Se l’avesse, sarebbero gli altri a soggiacere ai suoi veti e non lui a quelli degli altri.

Giuseppe Conte. Un disperato. Per prima cosa sa che, correndo da solo, sarà un miracolo se giungerà al 10 per cento, cioè a meno di un terzo dei voti ottenuti dai pentastellati nel 2018. Per seconda cosa, pur avendo la rispettabile età di 57 anni e pur essendo ordinario di diritto privato a Firenze, deve soggiacere ai diktat di Beppe Grillo, un comico. Egli manca completamente della personalità necessaria ad assumere una vera “leadership” politica, che invece sarebbe indispensabile per condurre il suo partito fuori dalle secche in cui pare ormai incagliato. Non riesce a recidere il cordone ombelicale che lo lega a Grillo e che, alla fine, lo strozzerà.

Luigi Di Maio. Un illusionista. Ha fatto una cosa da spregiudicato trapezista politico, una sorta di triplo salto mortale con doppio avvitamento: prima è uscito dal partito pentastellato, ha fondato un nuovo partito e poi si è affrettato a candidarsi nella lista del Partito democratico, mostrando di non credere – lui per primo – alle possibilità elettorali della sua creatura, anche in condominio con Bruno Tabacci. E allora se non ci crede lui, perché ci dovrebbero credere gli elettori? Infatti, non ci crederanno.

Licia Ronzulli. Una sempliciotta. Giorni or sono nel corso di un dibattito televisivo le viene chiesto dove Silvio Berlusconi troverà le coperture necessarie per pagare i mille euro mensili ai pensionati – come egli ha più volte dichiarato. Ebbene, Ronzulli risponde che siccome lei non è un economista non sa cosa dire in proposito, ma che di sicuro Berlusconi saprà cosa fare, per esempio risparmiando sul reddito di cittadinanza. Quesito: come fa una come la Ronzulli a rappresentare Forza Italia, senza saper rispondere a una tale domanda? Mistero. Come fa Berlusconi a permettere che ciò accada? Secondo mistero.

Matteo Salvini. Un pasticcione. Non solo per quello che combinò dimettendosi da ministro nel primo governo Conte. Salvini infatti prima di dimettersi allo scopo di far cadere il governo e – sulla scia dei sondaggi che davano la Lega al 24 per cento – andare subito ad elezioni anticipate, ebbe la geniale idea di chiedere all’allora segretario del Pd Nicola Zingaretti se, caduto il governo, lui si sarebbe mai alleato con i Cinque Stelle e, avuta risposta negativa, si dimise. Solo che il buon Salvini aveva dimenticato che Zingaretti non governava per nulla i gruppi parlamentari del Pd, che invece rispondevano quasi totalmente a Matteo Renzi, il quale aveva piazzato in Parlamento tutti i suoi uomini quando era lui il segretario del Pd. Risultato: Salvini si dimise, il governo cadde e subito se ne fece uno nuovo con il Pd al posto della Lega, il secondo governo Conte, con la benedizione di Renzi. E Salvini rimase col cerino in mano, mentre la Lega sprofondava nei sondaggi. Durante le convulse giornate per la elezione del capo dello Stato, poi, Salvini bruciava un candidato al giorno perché ha il vizio di parlare troppo in pubblico, dicendo cose che si dovrebbero tacere non per convenienza, ma per semplice prudenza. Di questa virtù lui è del tutto sprovvisto. Infatti, adesso grida già che nel nuovo governo vuole il dicastero degli Interni: prima delle elezioni, prima che si formi il governo, prima che si sappia chi Sergio Mattarella incaricherà di formarlo. Insomma, Salvini non è un esempio di saggezza e di tempestività.

Se poi pensiamo che pochi anni fa, intervistati da una televisione privata, politici di rilievo nazionale di tutti i partiti – e dico di tutti i partiti – non seppero indicare i confini della Germania, domanda da seconda media (ci fu anche chi propose come Stato confinante la Norvegia), allora il discorso si chiude qui.

Non occorre altro. E che Dio ci protegga.