A pochi mesi dalle elezioni presidenziali l’Ibama, l’agenzia ambientale del Brasile, ha dato l’autorizzazione a ripristinare la contestatissima BR 319 che collega Porto Velgo a Manaus attraversando l’Amazzonia. L’arteria in terra battuta, inaugurata durante la dittatura degli anni ‘70, si è quasi subito deteriorata a causa delle condizioni climatiche della foresta pluviale. In pratica la pioggia l’ha resa quasi impraticabile, per almeno sei mesi l’anno rallentando i danni. Se asfaltassero la strada le cose cambierebbero radicalmente. Il Guardian riporta i dati di uno studio secondo il quale il progetto aumenterebbe di cinque volte la deforestazione della zona entro il 2030: scomparirebbe un’area di foresta incontaminata grande come lo stato della Florida.

Com’è noto, con la presidenza Bolsonaro sono cresciute le pressioni sui popoli indigeni, di pari passo con la deforestazione: nei soli primi 3 mesi del 2022, secondo i dati forniti dai satelliti dell’Inpe, l’Istituto per la ricerca spaziale brasiliano, sono stati abbattuti 941 chilometri quadrati di foresta tropicale, il 64% in più rispetto allo scorso anno. Nemmeno la pandemia ha rallentato la corsa: ancora secondo le rilevazioni Inpe la deforestazione dell’Amazzonia brasiliana nel 2020 è cresciuta del 22%.

A causa di agricoltura e allevamenti intensivi (questi ultimi sono responsabili all’80% della deforestazione), legno, miniere d’oro e incendi, il polmone verde che con i suoi 6,7 milioni di chilometri quadrati è stato finora in grado di trattenere enormi quantità di anidride carbonica rallentando il ritmo del riscaldamento globale sarebbe ormai prossimo a un punto di non ritorno. Secondo molti scienziati potrebbe trasformarsi in savana con conseguenze gravissime per l’intero pianeta.

“Vale la pena ricordare a noi stessi che se si arriva a quel punto di non ritorno e perdiamo la foresta pluviale amazzonica, avremo conseguenze significative sul cambiamento climatico globale”, sottolinea Timothy Lenton, scienziato dell'Università di Exeter e coautore di uno studio pubblicato su Nature. La ricerca si basa su tre decenni di dati satellitari, che hanno monitorato il modo in cui alberi e altra vegetazione si riprendono dopo eventi meteorologici dannosi. I risultati non danno adito a dubbi: da almeno 20 anni l'Amazzonia sta perdendo resilienza. La maggior parte delle aree osservate si riprende più lentamente oggi rispetto a un paio di decenni fa. Le zone più aride sembrano peggiorare, insieme alle aree situate più vicine alle attività umane.

Il calo delle precipitazioni, l’aumento della siccità e la deforestazione stanno riducendo la vitalità della foresta pluviale. Non solo. Perdendo resilienza, la foresta potrebbe iniziare un processo paradossale contribuendo al riscaldamento del pianeta. È quanto emerso da uno studio supportato dalla National Geographic Society, pubblicato sulla rivista Frontiers in Forests and Global Change: prosciugamento delle zone umide, compattazione del suolo, incendi, inondazioni periodiche e costruzione di dighe, allevamenti e appezzamenti agricoli portano a un aumento delle emissioni di vari gas serra.

Secondo gli scienziati il riscaldamento atmosferico causato da questi processi sembrerebbe annullare l’effetto “raffreddante” della foresta. Anche un altro studio, pubblicato su Nature, mette nero su bianco come il polmone verde sia ormai sempre più una fonte di anidride carbonica: ogni anno produrrebbe 1 miliardo di tonnellate di CO2.

Nel frattempo, nel Brasile a poche settimane dalle elezioni presidenziali, Bolsonaro promette la sua “autostrada per l’Amazzonia”.