di Riccardo Maggiolo

 

La decisione di Vladimir Putin di sospendere le forniture di gas russo verso l’Europa non pone solo interrogativi sul breve e medio termine; su come alimentare le imprese e riscaldare le abitazioni questo inverno e vincere il braccio di ferro con Mosca. Ci costringe anche a riflettere su un futuro più lontano ma comunque prossimo, e su come il progresso umano potrà avanzare mantenendo una sorta di equilibrio con la Natura.

Per molti la risposta ai nostri problemi sia di breve che di lungo termine è “semplice”: le energie rinnovabili. Ma se si dibatte ancora molto sulla possibilità che queste ultime da sole possano sostenere tutti i nostri fabbisogni energetici presenti, ancora più dubbi si possono avere per il futuro. Con una popolazione mondiale prevista entro il secolo di 11 miliardi di persone, quasi tutte determinate a raggiungere gli iper-energivori standard di vita da civiltà industriale avanzata, come renderemo tutto questo sostenibile?

Dopotutto, la spettacolare crescita economica e, di conseguenza, sociale sperimentata dall’Occidente negli ultimi due secoli è stata dovuta all’ampia disponibilità ed economicità dei combustibili fossili, e alla capacità di creare ricchezza finanziaria su questa base. Ora che questa energia si fa sempre più rara e cara, torneremo – come recentemente pronosticato dallo stesso Putin – a una economia basata su risorse concrete e materiali o il modello capitalista-finanziario riuscirà ad imporsi ancora una volta dando vita a un futuro avveniristico ma allo stesso tempo sostenibile?

Il dilemma del nostro tempo è quindi forse questo: “sospendere” il progresso rischiando però di far esplodere i conflitti sociali dovuti alle disuguaglianze, oppure continuare a perseguirlo mettendo a repentaglio la nostra casa comune? I tentativi di sfuggire al dilemma e di “salvare capra e cavoli” si fanno, d'altronde, sempre meno credibili. Un’ottima rappresentazione ne è il progetto “The line”, recentemente presentato dall’Arabia Saudita. Si tratterebbe di una costruzione mastodontica, lunga oltre 170km e alta 500 metri ma larga appena 200 metri, quasi completamente chiusa su sé stessa, senza aperture o finestre sull'esterno, totalmente alimentata dalle rinnovabili e casa di 9 milioni di persone.

Ciò che colpisce di questo progetto di “città del futuro sostenibile”, oltre alle parossistiche dimensioni e ambizioni, è come preveda una pressoché totale separazione tra essere umano e Natura. Quasi che l’essere umano sia oramai diventato così potente da dover proteggere la Natura rinchiudendosi da solo in una gabbia dorata, salvando quindi anche sé stesso. Si tratta, in un’ottica storica di lunghissimo periodo, di una completa inversione di scenario rispetto a quello in cui emerse la nostra specie.

La Storia dell’essere umano, infatti, può essere interpretata secondo un criterio: la sua crescente capacità di agire in gruppi sempre più ampi, organizzati e flessibili per modificare l’ambiente a suo vantaggio. Grazie alla nostra eccezionale capacità cooperativa (che potremmo anche chiamare “lavoro”) in circa due milioni di anni siamo passati da piccolissimi gruppi dominati dalla Natura, ai primi tentativi di una società globale quasi in grado di plasmare l’ambiente a proprio piacimento (ho provato a ricostruire questa storia nel mio ultimo libro).

Siamo quindi destinati a raggiungere un tale livello di progresso da “schiavizzare” l’ambiente, oppure di estinguerci nel provarci? Può esistere un futuro “senza Natura” o finirà inevitabilmente per essere “contro Natura” (e quindi perdente)? Forse per trovare una risposta dobbiamo guardare lontano; lontano tanto quanto ci è consentito.

Da qualche settimana il James Webb Space Telescope ci sta inviando delle spettacolari immagini, con un dettaglio mai visto, del nostro universo. Spettacolari ma, allo stesso tempo, in un certo senso deprimenti: l’Universo, nella sua incomprensibile vastità, ci appare totalmente vuoto, disperatamente deserto e inabitato. Finora non siamo riusciti a scorgere nulla che possa indicare una civiltà a un livello tecnologico maggiore del nostro, in grado quindi per esempio di controllare l’energia di una stella o di gruppi di pianeti. Volendola dire un po’ scherzosamente, nessuna “The Line” spaziale è ancora emersa: neanche in rovina.

Eppure, il nostro universo ha oltre 13 miliardi di anni: oltre che all’incommensurabile spazio, il tempo per altre civiltà per svilupparsi ce n’è stato più che in abbondanza (Lo chiamano "Il paradosso di Fermi"). Questo porta ad alcune possibili conclusioni: o la vita è estremamente rara nell’universo (ma osservando il suo “comportamento” sulla Terra, dove nasce anche nelle condizioni più estreme, sembra difficile) o ogni civiltà collassa a un certo punto, schiacciata dal peso del suo stesso progresso (e, nel caso, noi saremmo assai vicini a questa inesorabile soglia).

C’è però una terza possibile spiegazione: a un certo punto una civiltà, un po’ per necessità, un po’ per scelta, si “ripiega su sé stessa”. Invece di alimentare la sua fame di risorse naturali, si dedica alla coltivazione delle sue risorse culturali; invece di esplorare sistematicamente lo spazio esterno, si dedica a quello interno. Risulta così invisibile agli altri, abitante di un “universo mentale” proprio reso possibile dai suoi avanzatissimi mezzi che gli donano sostentamento senza sforzo. Ma una civiltà siffatta sarebbe popolata da saggi in un'eterna pacifica meditazione, o da schiavi drogati in un mondo illusorio reso possibile dalla tecnologia? Su questo forse varrà la pena continuare a interrogarci.