di Mimmo Carratelli

 

Mina vagante, alta marea, meteorite, magico boom, lunapark, sorpresa, impresa e mariastella, attingiamo alla più spudorata riserva di encomi e iperboli per questo nuovo Napoli che, da Procida a Resina, ppe’ tutta ‘sta marina, ha ridestato gli entusiasmi dei tempi delle squadre di Vinicio e di Sarri, per non dire il Napoli di Maradona. Fa niente che dopo i fuochi pirotecnici contro Verona e Monza, i razzi azzurri si sono un poco spenti. Lo stadio si riempie. 

La terra ci manca comunque sotto i piedi, viviamo un bradisismo emotivo tipico di questa città di santi (Gennaro), poeti (Di Giacomo) e navigatori (Lauro). È l’estate dei miracoli, fai attenzione, nei vicoli di Napoli è tutta un’emozione. Grazie, Dalla. Ci siamo ripresi ‘o suonno e ‘a fantasia. Napule è mille calori, tutta una vampata, un andare allo stadio, un pizziche e vase e famme affaccià a Maria, infine (esagerando) meno male che Aurelio c’è. 

Aurelione ha compiuto il prodigio che riuscì a Benitez nove anni fa, una vagonata di acquisti eccellenti da est e da ovest come non avremmo immaginato nel clima opaco di Dimaro e Castel di Sangro nonostante fossero già arrivati Kvaratskhelia, Kim e Olivera, ma prevaleva la nostalgia per i perduti amori, il totem Kalidou, Lorenzo-a-ggiro, Ciro settebellezze, illanguiditi dal passato ca nun ha da passa’, ‘o passato chi so pò scurdà. 

Quando poi Aurelione (Gesù e Maria!) ha piazzato gli altri colpi, Ndombele a tutto Congo, il bimbetto Raspadori metà Mertens e metà Dieguito a Villa Fiorito e il Simeone Cholito lindo, allora c’è stata la resa algida all’uomo venuto da Hollywood e da Trastevere, schiacciati dal suo calciomercato senza pari, acquisti in contanti come non se lo può permettere la gran parte dei club italiani dissestati, abile spendaccione da che era pappone e mai barbapapà, come avrebbe voluto essere chiamato dai cori ingrati delle curve, aggredito dopo essere stato dal dentista, tifosi agitati con il pane duro per i suoi denti. Ai tempi romantici, su Ferlaino volavano aerei con lo striscione “vattene” e scoppiavano bombe nel cortile della casa al Corso Vittorio Emanuele. 

Passa sui teleschermi il faccione di Cristiano Giuntoli scolpito dal Brunelleschi nel mogano africano, un volto immobile, due labbra si muovono appena, non batte ciglio, l’occhio profondo e lungimirante oltre le Alpi sino al Caucaso, e qui scopre, s’invaghisce, corteggia e prende il ragazzo Kvaratskhelia, una sciarada di nome, gambe a mulinello, neuroni sempre accesi, un folletto aspira-difensori, gioco essenziale, un-due-tre-gol, non si sognerebbe mai di ballare sulla mattonella. È il gran colpo del buon Cristiano. Perché il Napoli di Insigne è diventato presto e bene il Napoli di Kvaratskhelia. 

Sessantotto milioni impegnati negli otto acquisti, già definiti “loro di Napoli”, senza se, senza ma e senza apostrofo, compreso il riscatto di Anguissa (15 milioni), Kim il più caro (18 milioni), più 70 milioni futuri per il riscatto dei prestiti (Raspadori, Ndombele, Simeone), una rifondazione sontuosa, ma il popolo non ama il presidente che ci ha portati da Trani a Liverpool, otto volte in Champions, perché l’uomo non sorride mai, ha sempre un cruccio d’autore, non comunica, non è simpatico, non è empatico, è matematico, i piedi a terra e sul bilancio, l’aria di Cicerone incazzato, mai di un disponibile Catullo odi et amo. 

Aurelione se ne frega, boria che non molla, tirerò diritto, se avanzo inseguitemi, uomo dal cuore di cristallo infrangibile. Un feroce paladino. Chiama Zizì Kvaratskhelia non per affetto motorio, ma perché non riesce a pronunciare il complicato cognome georgiano. Intanto, propone questo nuovo Napoli che guadagna le prime pagine dei giornali e dei telegiornali da che era nelle ultime, scaduto a cugino tra le famose sette sorelle e tutti dicevano bih, boh, bah, e lo stesso Spalletti perplesso dichiarava: “Tutti si sono rinforzati, qualcuno ha preso giocatori già forti, ha fatto valutazioni diverse dalle nostre, hanno comprato per vincere subito. Noi dobbiamo crescere. Siamo quelli di prima con meno esperienza, meno presenze in Champions, meno presenze in nazionale, meno personalità”. 

Uànema! Fa il furbo l’uomo di Certaldo che sussurra ai cavalli Astra e Giansy nel suo ranch sulle colline fiorentine e ha chiamato Gaetano un alpaca e vive tra gli struzzi, più le galline del Cioni. Sa che l’entusiasmo di Napoli brucia, distrae ed è pronto a spegnersi al primo intoppo. Lucky cala la saracinesca della prudente attesa, si becca due pareggi, dispensa i panegirici del suo personale vernacoliere per sedare e placare, dipana i sermoni da monaco buddista con testa buddista e ornamenti di catene buddiste e saggezza toscana, se ‘un si va all’Arno‘un si vede l’Arno, andiamo, vediamo. 

Andando all’Arno, primo test impegnativo contro la Fiorentina di Rocco Commisso viaggiatore e di Joe Barone rampante, il Napoli regge l‘urto viola, spegne i fuochi d’artificio, combatte e se la cava. Non era facile. Ma resta un Napoli che scoppietta e si diverte, strapazza le “piccole” e i bambini fanno oh. La Fiorentina l’ha aggredito a randellate. Lo zero a zero è stato un incidente di percosse. Ma il successivo 1-1 col Lecce al “Maradona”? Cose che capitano col turn-over. 

Intanto, ‘a Navas cammina e ‘a fava se coce, come dicono a Forcella inneggiando a Keylor Navas, il portiere di esperienza che dice: “Dio per me viene prima”. De Laurentiis si accontenterà del secondo posto. 

Nel Napoli multietnico (un kosovaro, un sudcoreano, un portoghese, un camerunese, uno slovacco, due polacchi, un messicano, un nigeriano, un georgiano, un tedesco, un brasiliano, un macedone, un algerino, un norvegese, un argentino, un uruguayano e, per carità di patria, otto italiani) ci sarà forse, chissà, ma sì, questa presenza costaricana grazie a Cristoforo Colombo che al quarto viaggio scoprì la terra di Keylor e del tucano carenato.