di Rosa Fioravante

Dopo il voto il Paese è spaccato in due. Molto più tra centronord e centrosud che non tra destra e sinistra. Non solo perché il cosiddetto “voto utile” in funzione democratica e anti-estrema destra nelle regioni più povere e marginalizzate è stato quello al Movimento Cinque Stelle e non al Pd, ma perché più alta è stata in quelle regioni anche l’astensione. D’altro canto, durante l’intera campagna elettorale, gli unici flussi migratori attenzionati sono stati quelli dall’estero all’Italia, nella consueta dimenticanza di quelli che sugli italiani hanno invece reale impatto: quello da Sud a Nord di 6 giovani su 10 e quello di laureati, laureate, specializzati, ricercatrici e persone altamente qualificate verso l’estero. Complice una legge elettorale che distorce la volontà dei cittadini e delle cittadine, la fotografia parlamentare è dunque parziale e fuori fuoco: rappresenta in larga parte ceti urbani, classe media, insediata al Nord. Tipicamente, la parte che – sebbene in difficoltà anch’essa – se la passa meglio.

Non può stupire: il Pd non ha davvero perso in termini di voti assoluti, ma ha perso l’opportunità di qualificarsi su un’agenda sociale invece che sull’agenda Draghi (qualunque cosa quest’ultima volesse intendere). Viceversa, i Cinque Stelle hanno perso in termini di voti ma rappresentano oggi la principale forza di opposizione a carattere sociale: un vuoto, lasciato tale dal centrosinistra, che riempiono con alterne fortune e alterna credibilità. La sinistra di AVS riconferma il consueto patrimonio di voti dell’area, intorno a un milione, stessa cifra di Leu, persino quasi stessa cifra de L’Altra Europa con Tzipras del 2014; agli eletti ed elette ora spetta l’arduo compito di concentrarsi nell’allargare il campo invece che nell’esercizio biennale di cambio di simbolo e nome.

Le opzioni di De Magistris e Paragone semplicemente non esistono al di là del rassemblement elettorale come movimento ideale o sociale: esiste qualche centinaio di migliaio di voti che con un po’ di lavoro si sarebbe potuto convogliare comodamente in alleanze più ampie a destra o sinistra. Da ultimo, il cosiddetto “terzo polo” è tutto fuorché terzo: l’alleanza imperniata sull’ideologia del darwinismo sociale si riconferma espressione di quel “estremismo di centro” che in Italia rappresenta una fetta significativa seppur minoritaria di quei ceti urbani. Il loro rilievo mediatico dimostra ancora una volta che l’assunto per il quale le ideologie si diffondono non perché condivise da una maggioranza ma perché popolarizzate da una minoranza rumorosa, facoltosa e ben organizzata, è ancora funzionante nella nostra società. È chiaro che nessuna di queste forze può rappresentare, con le sue debolezze strutturali o le sue compiacenze verso le politiche di destra, un’alternativa solida al prossimo Governo. La destra, dal canto suo, ha mutato leadership ma non programma né classe dirigente: per questa fedeltà alle proprie posizioni viene premiata dal suo popolo.

Il Paese è dunque spaccato, ma non tra le opzioni politiche in campo. Lo è sulle principali convinzioni intorno a come fronteggiare il combinato disposto di crisi energetica, inflazione, situazione geopolitica e crisi sanitaria se dovesse ripresentarsi. Spaccato tra coloro che credono che anche questa crisi economica, come quella precedente, debba essere pagata dalla classe media (a mezzo di “sacrifici”) e chi invece ritiene debbano pagarla coloro che hanno di più e che dalle crisi hanno profittato. Spaccato tra coloro che attaccano le misure di sostegno al reddito e di redistribuzione come “voto di scambio” e coloro che credono che, a fronte di enormi diseguaglianze, che nulla hanno a che fare col merito ma tutto con il privilegio di nascita, sia giusto che lo Stato si faccia carico delle situazioni di fragilità, marginalità e incapienza. Vieppiù, spaccato tra coloro che vorrebbero concentrare ancora di più ricchezze e potere in poche mani e coloro che vorrebbero salari dignitosi, vivendo nell’unico paese europeo nel quale questi ultimi sono diminuiti invece che aumentare, e aumentare diritti civili e sociali. L’unica differenza è che i primi sono organizzati: hanno non solo un Governo che si sta per insediare ma anche think thank, intellettuali, forze sociali all’opera per trasformare l’Europa e il mondo in senso sempre più diseguale e antisolidale, i secondi no.

Per questo, chiunque sostenga che il governo Meloni sia una sciagura deve innanzitutto chiedersi: “che cosa faccio e posso fare quotidianamente affinché la società non diventi sempre più incarognita, razzista, sessista, egoista, affinché i miei cari non muoiano nei continui disastri causati dal cambiamento climatico?” La risposta, tuttavia, non può esaurirsi nell’imbucare una scheda nell’urna ogni cinque anni né nel condividere belle card sui social. Risiede invece in un inesausto sforzo nell’associazionismo, nel sindacato e nei corpi intermedi, nel terzo settore e nei movimenti sociali, all’interno dei quali confrontarsi continuamente per riempire di sostanza gli spazi della democrazia formale. Soprattutto, nei rapporti che al loro interno si creano, perché essi si fanno infrastruttura di elaborazione e sostegno di proposte di giustizia sociale e climatica che ad oggi esistono senza rappresentanza e che non diventeranno maggioranza politica finché non raggiungeranno un minimo di egemonia culturale.

Il Paese è dunque spaccato ma senza opposizione le sue spaccature rischiano di non trovare composizione politica: la minaccia più grande da fronteggiare in queste ore non è il fascismo ma l’apatia. Come scriveva Sepulveda, narratore della resistenza Cilena: “la libertà è uno stato di grazia e si è liberi solo mentre si lotta per conquistarla”.