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di Sara Gentile

Sì è conclusa l'elezione dei presidenti delle due Camere con una sceneggiatura che neppure il più immaginifico commediografo o romanziere avrebbe potuto realizzare. La senatrice Liliana Segre vittima delle leggi razziali fasciste del 1938, e uscita viva dai campi di concentramento nazisti che presiede la seduta del Senato nella quale, con piroette trasformiste, viene eletto Ignazio la Russa di FdI, antico militante della destra più intransigente, con la casa piena delle "reliquie" del Duce, non nuovo alla vita politica in posizioni anche importanti. Alla Camera viene eletto senza intoppi il leghista ultracattolico Lorenzo Fontana (anche lui con il rosario in tasca a mo' di amuleto per esorcizzare il male), quello contro aborto, omosessuali, plaudente ai leader europei di destra estrema, per l'ordine, la patria (o patrietta a seconda del bisogno), la famiglia, quella immutabile per sempre.

Ho subito pensato a Il rosso e il nero di Stendhal (1831) e alle avventure del protagonista Julien Sorel in cui convivono due sentimenti contrastanti: la passione per la vita militare che suggerisce gloria e coraggio e il piegarsi realisticamente alla vita del seminario più sicura e al riparo. Egli cederà a varie passioni e tentazioni oscillando fra estremi opposti, ma ciò che permane in lui sono, fino alla fine, la brama di potere e l'attitudine spiccata a dissimulare che comunque non gli eviteranno una condanna alla ghigliottina. Stendhal ha rappresentato così la Francia della restaurazione, il frusto e avido perbenismo borghese dopo i fasti di Napoleone Bonaparte, che si allontanano e negano la passione civile, la tensione verso il riscatto, insomma il clima cupo di quegli anni in cui la monarchia era tornata tenendo ben salde di nuovo le redini di un cavallo che ripristinava vecchi privilegi. E ieri in qualche modo è andato in scena tutto questo a Palazzo Madama ed oggi anche alla Montecitorio, fra accordi sottobanco o semplicemente la vecchia tara del trasformismo italico.

Infatti le prime prove di Giorgia Meloni, capo fra qualche giorno del nuovo governo, e del suo partito, hanno contraddetto finora quanto affermato dopo la vittoria ogni giorno: un governo autorevole, di alto profilo, una insistita dichiarazione di pro- europeismo (ma di quale Europa? Visti gli interlocutori privilegiati fra i paesi europei), la coesione alta della coalizione, la moderazione del progetto politico, la volontà di procedere senza indugi alla formazione del governo, scelta dei ministri quindi e quant'altro. Ciò che emerge dalle vicende di questi giorni è proprio l'opposto: la coalizione di centrodestra, come tutti la chiamano, è in effetti di destra, di una destra precisa; non è coesa, anzi lacerata da punti di vista differenti ma, soprattutto da appetiti irrefrenabili dei diversi componenti; litiga sui nomi da destinare a incarichi di prestigio come le lavandaie una volta per il pezzo di sapone migliore; non applica il principio di competenza a giudicare da questo inizio e da ciò che si prefigura nelle proposte che verranno; soprattutto non è moderata e super partes come si richiede ad un gruppo che si appresta a governare.

L'elezione dei due presidenti di Camera e Senato dice con evidenza una scelta inequivocabile; Ignazio Benito la Russa è un ex militante del Fronte della Gioventù, poi del MSI, ha cioè una storia e un profilo costruiti nella destra italiana nostalgica, avendovi fatto apprendistato e carriera politica; Lorenzo Fontana è sin da ragazzo impegnato con la Lega, prima bossiana, poi salviniana di cui ha condiviso il separatismo, le parate simboliche a Pontida e l'acqua del Po nell'ampolla salvatrice e poi le declinazioni "nazionali" del partito e le contorsioni salviniane, promotore di vere e proprie crociate contro tutte le "alterità" (immigrati, omosessuali) e i diritti già affermati come quello dell'aborto.

Tirando le somme questa coalizione che si appresta governare e, FdI innanzitutto, ha scelto una postura fortemente identitaria di cui i personaggi prescelti sono espressione e, alle soglie del potere, ha subito messo da parte quella della protesta, della promessa palingenetica che tanto ha catturato una parte del corpo elettorale, i delusi,i perdenti, i disorientati perché privi di un partito che gli porgesse una buona zattera per non precipitare in questa crisi che ci attanaglia e non fa presagire veloce la sua fine. E' pur vero che chi vince piglia tutto, ma questo tutto si può prendere con la clava che non ammette repliche, o col fioretto che lascia spazi anche piccoli ad una idea di pluralità. Perché in democrazia, fra le altre, vige la regola che la maggioranza eletta domina ed ha il diritto/dovere di governare, ma lo fa legittimamente se pratica il rispetto delle minoranze, ossia della pluralità delle voci. Su questo principio riposa la sostanza del meccanismo democratico.

Quindi il "rosso" e il "nero" sono una metafora adeguata e viva anche oggi, nell'Italia di ora, con l'augurio che il coraggio, la passione per le cose alte, la responsabilità prevalgano sulla cupa rassegnazione ed il mercimonio a differenza che per il Julien Sorel di Standhal, che finisce trascinato verso il grigiore e poi la disfatta.